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Analisi del “Comune rustico” di Carducci

Da un punto di vista scolastico, la figura di Carducci ha avuto una sorte piuttosto particolare. Vate nazionale per antonomasia, ha goduto sicuramente di vasta fortuna nel periodo che va dalla realizzazione dell’unità d’Italia alla caduta del fascismo. Dagli anni ’50 in poi, però, il suo mito fu oggetto di ripetuti e concentrici attacchi, e presto si arrivò alla clamorosa definizione dell’illustre critico Natalino Sapegno, che abbassò l’autore delle “Odi barbare” al modesto rango di poeta “minore”. Affermazione che sarebbe suonata blasfema solo due o tre decenni prima. Inevitabilmente, lo spazio concesso a Carducci nei programmi e nelle antologie scolastiche diminuì, e fiorirono nei suoi confronti le accuse di insopportabile retorica, nello stesso momento in cui cresceva, nei licei italiani, il fascino dei poeti italiani del Novecento (Montale in primis) o, volendo tornare al XIX secolo, di autori stranieri quali i maudits francesi, da Baudelaire a Rimbaud.

A tutto ciò, naturalmente, non sono state estranee certe atmosfere politiche tipiche del ’68, che sono rimaste dominanti per tutti gli anni ’70. Oggi questa temperie è indubbiamente passata, ma Carducci rimane comunque marginale nelle proposte dei docenti di lettere, probabilmente per un motivo del tutto pragmatico, e cioè per la sempre più forte necessità di dare spazio ai nuovi “classici” più vicini ai nostri tempi, quali Calvino o Pasolini, fino ad arrivare a figure di poeti e di narratori scomparsi solo di recente, come Alda Merini o Antonio Tabucchi.

Nonostante queste esigenze del tutto sensate, ritengo utile spendere qualche lezione per conoscere alcuni aspetti particolari del “grande artiere” vissuto tra la Toscana più autentica (la Maremma, San Miniato, Bolgheri) e la Bologna “turrita” e dottorale.

A parte il “Canto dell’amore” (su cui ci soffermeremo in un’altra occasione), quanto mai interessante per i lettori perugini, ritengo non trascurabili le considerazioni che possono scaturire dalla lettura di una lirica più nota ed antologizzata, il Comune rustico. Si tratta di un brano che potremmo ricondurre senza particolari difficoltà all’idea di rêverie romantica. E,’ cioè, una fantasticheria, un sogno ad occhi aperti. Sul punto di congedarsi – al termine di una vacanza estiva – dai boschi della Carnia, il poeta immagina di assistere ad una scena medievale, avendo cura di precisare, però, che il suo Medio Evo non ha nulla a che vedere con l’immaginario gotico caro ai romantici d’oltralpe, tedeschi innanzi tutto. Niente “congreghe” di “diavoli goffi con bizzarre streghe”, dunque, ma un’assemblea di rudi e sani montanari risalenti a un periodo imprecisato, ma che potremmo collocare non meno di 600 anni prima di Carducci stesso.

Un’autorità politica, un “console” che possiamo immaginare liberamente eletto dal popolo, stabilisce alcuni semplici precetti, tesi a regolare la vita dei rustici e virtuosi abitanti della zona sia in tempi di pace che in caso di aggressione esterna. “Ecco, io parto tra voi quella foresta…”; “e voi, se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste; ecco le spade. Morrete per la nostra libertà”.

Da questi due brevi frammenti possiamo trarre le nostre osservazioni più significative, che chiamano in causa, per contrasto, due altri grandi personaggi della letteratura italiana del secolo di Carducci, accomunati dalla forte tendenza al realismo e da una spiccata inclinazione al pessimismo, Verga e Manzoni. Nel primo caso la mia attenzione è stata particolarmente attirata dal verbo “partire”, cioè “dividere”, “spartire”, che Carducci attribuisce al console: “Ecco, io parto…”. L’autorevole personaggio propone al suo popolo una spartizione equa dei terreni da adibire al pascolo della “belante” e della “mugghiante greggia”.

Questo passaggio mi ha fatto pensare a una scena di un testo assai diverso, la novella “Libertà” di Giovanni Verga, quando gli abitanti di Bronte hanno ormai esaurito la furia omicida che li ha portati a massacrare i “cappelli” o “galantuomini”, ovvero i proprietari terrieri locali, come è stato descritto nella prima parte del racconto, una delle più potenti pagine letterarie che io ricordi. Recuperata la freddezza, i contadini cominciano a scrutarsi con sospetto, ed ecco che torna quel verbo: “Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno tra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte e guardava in cagnesco il vicino…e se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo?…ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini!” E’ quasi superfluo sottolineare la differenza tra questa situazione e quella proposta da Carducci: qui abbiamo il feroce attaccamento alla “roba”, il vicino visto come potenziale nemico, la totale assenza di sentimenti solidaristici e di una dimensione comunitaria (vengono in mente il Guicciardini del “particulare” e il Machiavelli che nel “Principe” afferma: “gli uomini sdimenticano prima la morte del padre che la perdita della roba”). Rispetto a questo spietato realismo, che nasce da una profonda conoscenza dell’animo umano, Carducci appare un romantico sognatore, anche se si potrebbe obiettare che i braccianti siciliani risentono di secoli di oppressione e di totale mancanza di familiarità con atteggiamenti che vadano in una direzione opposta rispetto a quel “familismo amorale” che, con efficacia per noi amara, coglie con efficacia tanta parte dello spirito meridionale, e italiano tout-court. Se avesse trionfato in tutta la penisola lo spirito di appartenenza degli antichi abitanti della Carnia – potrebbe ribattere Carducci – diversa sarebbe stata la nostra storia. Ma sappiamo bene che le cose sono andate diversamente.

Passando al secondo spunto, esso ci porta – come si è detto – a Manzoni, e in particolare all’ “Adelchi”. Infatti, deciso è il contrasto tra l’orgoglio con cui il popolo ritratto da Carducci accetta le armi idealmente affidategli dal console per la comune difesa, e l’ignavia del “volgo disperso” che prima ha lungamente subito il dominio dei Longobardi, poi si è brevemente illuso di vedersi elargita la libertà dai Franchi. Come già avevamo notato in precedenza con Verga, anche in questo caso la fantasticheria carducciana non regge il confronto con il realismo e con l’accuratezza della ricostruzione storica di Manzoni. Tutt’al più si potrà dire che gli unni o gli slavi cui accenna il futuro premio Nobel sono solo bande di predoni che tentano, in numero ridotto, delle scorrerie rispetto alle quali un villaggio ben organizzato potrebbe anche difendersi; ma questa osservazione non cambia di molto i contorni della questione concreta, che è quella che ci ricorda anche Foscolo con i “Sepolcri”: l’Italia non ha avuto, per secoli e secoli, un esercito di popolo con cui difendersi dalle aggressioni esterne.

Avvicinandoci alla conclusione della nostra analisi, non possiamo dunque che ribadire il carattere tipicamente romantico del rapporto di Carducci con la storia: il passato è per lui un luogo ideale nel quale rifugiarsi per immaginare una realtà non quale è stata, ma quale si vorrebbe fosse stata.

In questo contesto trovano senso anche i riferimenti, altrimenti contraddittori in considerazione dell’anticlericalismo carducciano (pur attenuatosi negli anni), a una religione vista come fattore aggregante, un po’ come avviene in una delle opere più efficaci nell’inquadrare il senso e la forza di uno spirito nazionale veramente condiviso, l’ ”Enrico V” shakespeariano. Ancora una volta, l’Italia come sarebbe stato bello che fosse, e non è stata.

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