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Azione e vendetta – Le fragilità dell’uomo moderno nei grandi scrittori russi

Ricco di suggestioni squisitamente cechoviane, il racconto “Vicini”, di cui ci siamo occupati ultimamente, offre anche significative possibilità di collegamento con altri importanti testi, a proposito di un tema tutt’altro che marginale nella letteratura europea del periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del ‘900.

Nella breve storia dell’incontro tra Petr Michajlyc e la novella coppia di conviventi “irregolari” formata da sua sorella Zina e dal vicino Vlasic, trova spazio anche l’evocazione di una cupa e semi-leggendaria narrazione riguardante un ricco francese, tale Olivier, che aveva occupato, negli anni ’40 dell’Ottocento, la casa poi passata alla famiglia di Vlasic. Prepotente e spietato, il signorotto straniero aveva fatto massacrare dai suoi uomini un vagabondo – un figlio della Russia più autentica – reo di aver cercato di sedurre la figlia del padrone, o di aver incitato i contadini alla rivolta, o forse di entrambe le colpe.

La storia turba Petr e sua sorella, ma sembra poi lasciata da parte; se non che il protagonista se ne rammenta sulla strada del ritorno, quando passa vicino al laghetto, inquietante per l’oscurità e, ancor più, per il fatto che – forse – proprio lì era stato gettato il cadavere del malcapitato giovane, vittima del francese.

“Olivier ha agito in modo inumano, però in una maniera o nell’altra ha risolto il problema, mentre io non ho risolto nulla, l’ho solo confuso…lui diceva e faceva quello che pensava, mentre io dico e faccio quello che non penso; poi, di preciso non so nemmeno quello che penso…”.

Dopo pochissime righe di riflessioni non dissimili, il racconto ha termine. Cechov però, proprio grazie alla digressione su Olivier, ha toccato il cuore del problema: l’incapacità di agire che spesso caratterizza il personaggio letterario moderno, specie quando in lui appaiono, particolarmente spiccate, doti quali l’intelligenza e la sensibilità.

Per il momento intendo mettere in evidenza solo una concordanza: quella tra Petr Michajlyc e il dostoevskijano uomo del sottosuolo.

Considerate da tutti gli studiosi l’opera-spartiacque nell’ambito della produzione di Dostoevskij, le “Memorie del sottosuolo” escono nel 1865, e ad esse faranno seguito tutti capolavori del grande romanziere russo, da “Delitto e castigo” (1865) ai “Fratelli Karamazov” (1878-1880), quasi come se da questo bizzarro e difficilmente classificabile scritto egli avesse preso lo slancio per trattare le sue tematiche più sconvolgenti e vertiginose: il libero arbitrio, l’irrazionalismo, la tensione spesso insanabile tra il desiderio di affermazione totale dell’individuo che crede di avere doti d’eccezione e l’amore evangelico e assoluto per il prossimo del “puro folle”.

Apriamo il libro e ci troviamo subito davanti all’uomo del “sottosuolo”, un contraddittorio e logorroico personaggio che non fa altro che parlare di sé, presentandosi, non senza un evidente e persino irritante autocompiacimento, come il peggiore tra gli uomini. In sostanza, si tratta di un impiegato (figura assolutamente emblematica della narrativa di fine Ottocento; si pensi solo al pirandelliano Belluca e al Bartleby di Melville) che, ricevuta una modesta somma in eredità, ha preferito lasciare il lavoro e rintanarsi nel suo “angoletto”, nella sua camera “schifosa”. Qui passa il tempo a tormentarsi con la sua spietata auto-analisi, da cui appare evidente una notevole lucidità, che rimane però del tutto improduttiva.

Del resto è proprio questa una delle prime, sconcertanti osservazioni dell’anonimo personaggio: l’intelligenza non porta a nulla, almeno nel mondo moderno; a risultare fattivi, concreti, a ottenere dei risultati pratici sono solo gli uomini un po’ ottusi, quelli scarsamente dotati di facoltà analitiche.

“Ora poi finisco i miei giorni nel mio angoletto, stuzzicandomi con la maligna e perfettamente inutile consolazione che un uomo intelligente non può in effetti diventare sul serio niente, e diventa qualcosa solo uno stupido. Sissignore, un uomo intelligente del XIX secolo deve – e ne è moralmente obbligato – essere una creatura prevalentemente senza carattere; perché un uomo di carattere, una persona attiva, è una creatura prevalentemente limitata”.

Certo, c’è del ridicolo nel giudicarsi da soli particolarmente intelligenti, ben al di sopra, quanto a materia grigia, rispetto agli uomini comuni che pure agiscono e realizzano qualcosa di concreto. Può apparire una facile giustificazione, ma ricordiamo che l’uomo del sottosuolo è un narratore “inattendibile”, cioè un narratore del quale non possiamo fidarci e che farà ricorso a ogni sorta di pretesto e di alibi, come poi avverrà, a non pochi decenni di distanza, nella “Coscienza di Zeno” di Svevo.

Ma l’uomo del sottosuolo è anche un narratore inattendibile molto particolare, che si smaschera da solo costantemente, godendo non poco nel mettersi in cattiva luce. E’ un uomo turbato e nevrotico, che ci lascia disorientati e indispettiti ad ogni capitolo, eppure capiamo che c’è del vero in quello che dice, e spesso non sarà neppure difficile riconoscersi nelle sue manie. E’, oltre tutto, il primo a essere consapevole del ridicolo in cui rischia di cadere. Un personaggio che merita, quindi, di essere ascoltato, anche quando, sempre nei capitoli iniziali del libro, parla della vendetta, che – ricordiamolo – è il tema da cui siamo partiti (la spietata punizione inflitta dal francese Olivier nel racconto di Cechov).

Chi è, dunque, che riesce a vendicarsi? Quello che Dostoevskij chiama l’homme de la nature et de la verité, con un linguaggio che non può non richiamare alla mente Rousseau, il pensatore che forse è alla base di tutto questo ambito di riflessione. Tornando al nostro homme, se a spingerlo non è la rabbia, cioè un impulso cieco e violento (come nel caso del francese di Cechov), decisiva sarà allora un’elementare idea di giustizia. “Ho subito un torto? Faccio giustizia vendicandomi”. Ma l’uomo del sottosuolo associa ancora una volta la concretezza alla stupidità.

“Tutti gli uomini immediati e d’azione, proprio perché attivi, sono ottusi e limitati…in conseguenza della loro limitatezza, prendono le cause più vicine e secondarie per primarie, in tal modo si convincono più velocemente e facilmente degli altri di aver trovato l’indubbio fondamento dei loro atti, e vai che si tranquillizzano; ed è proprio questa la cosa principale, perché, per cominciare ad agire, bisogna essere preliminarmente del tutto tranquilli, anche perché non resti alcun dubbio”.

Cosa succede, invece, nell’uomo del sottosuolo? Né la rabbia né l’idea di giustizia funzionano in lui, annullate da quella che potremmo definire un’eccessiva attitudine all’analisi.

“Il rancore in me è sottoposto a una scomposizione chimica…la materia si volatilizza, le ragioni evaporano, il colpevole non si trova, l’offesa diventa non un’offesa, ma fatalità…”.

L’uomo del sottosuolo, quindi, non si ferma alle cause più immediate, ma risale indietro, e poi ancora e ancora indietro. “Quest’uomo mi ha offeso, ma perché lo ha fatto? E come è arrivato a trovarsi nella condizione di offendermi?” E poi, e poi, ancora più indietro…

“Dove sono le mie cause primarie a cui posso appoggiarmi, dov’é il fondamento? Dove le vado a prendere? Mi esercito nel ragionamento, e di conseguenza ogni mia causa primaria ne porta subito con sé un’altra, ancora più primaria, e così via all’infinito”.

Possiamo dunque affermare che la civilizzazione si paga in termini di incapacità di azione. Allontanandosi dallo stato di natura (che può anche essere stato ferino), l’uomo ha compiuto innegabili progressi, anche dal punto di vista della tolleranza e del rispetto dell’altro (almeno in teoria, come ci dimostrano ampiamente la storia del ‘900 e la stessa cronaca quotidiana), ma soffre per la consapevolezza dell’inettitudine che lo blocca e dell’alienazione che fa di lui una sorta di prodotto di laboratorio, lontano dal contesto naturale che gli sarebbe stato proprio. Non a caso Dostoevskij contrappone al cosiddetto homme de la nature et de la verité quello che viene definito uomo “di storta”, come chi dicesse di un essere uscito da una provetta, ormai lontano dall’idea originaria di uomo, vitale e sicuro di sé, non senza un che di violento.

Eccoci giunti, allora, a un primo, provvisorio tirar delle somme: Dostoevskij e Cechov dimostrano che gli scrittori del tardo ‘800 e del primo ‘900 tendono a presentare, nei loro scritti, personaggi tormentati dal dubbio e inefficaci, se non nulli, nell’azione. Petr Michajlyc e l’uomo del sottosuolo rappresentano tipi umani alquanto diversi: più bonario e accomodante il primo, del tutto asociale e al limite del masochismo l’altro, ma entrambi potrebbero concordare nel dirsi rappresentanti di una nuova umanità, forse più civile, ma anche più inerte e passiva rispetto a quella del passato. E anche il livoroso impiegato dostoevskijano potrebbe far sua la perplessità venata d’invidia con cui Petr guarda al crudele Olivier: “Ha agito in modo inumano, però ha risolto il problema, mentre io non ho risolto nulla”.

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