tramonto di Mao e mito di Falcao

Come eravamo – 1980, ovvero: dal tramonto di Mao al mito di Falcão

Questo blog – in diversi ormai lo sanno – nasce per un pubblico decisamente giovane, quello degli studenti liceali, anche se ciò non comporta affatto la volontà di escludere lettori più “maturi”, che sono anzi i benvenuti.
In particolare, il presente articolo rientra nell’ideale categoria del “come eravamo”, e vuole rievocare, in primis per gli adolescenti di oggi, uno specifico aspetto della storia del calcio e – perché no? – del costume italiano.

L’anno che ci interessa, dunque, è il 1980. Si chiude il decennio dei basettoni e dei pantaloni a zampa d’elefante (ma anche della prosecuzione della stagione dell’ “impegno” e della lotta per i diritti civili iniziata negli anni ’60), e si apre un decennio la cui cattiva fama si è ormai stabilmente consolidata. Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan spianano la strada a quella che sarà l’affermazione del liberismo e del “turbocapitalismo” in tutto il mondo, occidentale e non solo: la vulgata vuole che proprio in questi anni un presunto senso di solidarietà e di coesione sociale abbia lasciato il posto a un individualismo cinico e a un disimpegno becero e balordo, che avrebbero trovato la loro concretizzazione rispettivamente nel “rampantismo” degli yuppies (del 1987 è il film “Wall Street” di Oliver Stone, in cui Michael Douglas interpreta alla perfezione Gordon Gekko, figura negativa ma affascinante di manager gelido e spietato) e, almeno in Italia, nella moda dei “paninari” per i quali il piumino Moncler e le scarpe Timberland assurgono al rango di status-symbol agognati e capaci di decretare chi è “in” e chi è “out” (trasmissione di riferimento: Drive-in, in onda su Canale 5 dal 1983).
Come in ogni generalizzazione, ci sono parti di verità, ma anche elementi da correggere. Per limitarci a un settore specifico, ma non privo di importanza, basti pensare alla storia della musica rock; capita non di rado di sentir liquidare gli Eighties come l’epoca di fenomeni meramente commerciali e di dubbio gusto quali Duran Duran e Spandau Ballet (la stessa critica può valere, in misura senz’altro minore, per Michael Jackson e Prince), senza considerare che nel vituperato decennio hanno lasciato un segno notevole bands di ben altro spessore: Smiths, Depeche Mode, Talking Heads, fino ad arrivare a nomi più di nicchia come quelli di Minutemen, Husker Du, Pixies e altri.
Ma torniamo al 1980, anno di eventi particolarmente importanti, innanzi tutto a livello mondiale: l’elezione di Ronald Reagan, già citata; la fondazione del sindacato polacco Solidarnosc e i primi scioperi nei cantieri di Danzica (atto iniziale di una serie di eventi che porteranno, nel fatidico e simbolico 1989, alla caduta del Muro di Berlino); la dichiarazione, in Cina, da parte dell’Assemblea Nazionale del Popolo, della fine dell’era maoista (preludio di quell’apertura al capitalismo e al libero mercato che avrebbe portato il gigante asiatico a diventare il numero uno dell’economia mondiale).
In Italia sono soprattutto eventi drammatici a dominare la scena: omicidi eccellenti di matrice mafiosa o terroristica (Mattarella, Bachelet, Tobagi), stragi destinate a rimanere misteriose e impunite (l’abbattimento del DC 9 dell’Itavia sui cieli di Ustica e l’esplosione nella sala d’aspetto della stazione di Bologna), nonché il terribile terremoto dell’Irpinia.
La vita quotidiana è, per certi aspetti, alquanto diversa da quella del 2013: niente cellulari, niente pay-tv (ma muovono i primi passi le reti commerciali di Silvio Berlusconi); i personal computers esistono, ma sono scarsamente diffusi e ben lontani dalla concezione che ognuno di noi, oggi, ha ben presente. Lo stesso discorso vale per il mondo dei videogames, in cui peraltro va segnalato, in quell’anno, l’inizio della commercializzazione del celeberrimo Pac-Man. E il calcio, elemento anch’esso importante nel tempo libero di tanti italiani? È molto differente da quello odierno. La serie A conta 16 squadre, e una vittoria vale due, non tre punti. Questo fa sì che il pareggio, magari per zero a zero, sia un risultato spesso gradito a buona parte delle compagini e, anno dopo anno la media dei gol resta leggermente al di sotto di due gol a partita. Un panorama alquanto grigio, cui i giovani appassionati cercano di reagire attingendo avidamente alle poche pagine che il Guerin Sportivo (glorioso settimanale diretto da Italo Cucci) dedica ai tornei stranieri. I nomi dei campioni che militano in Inghilterra, in Germania, in Spagna e in Olanda fanno sognare in maniera inversamente proporzionale alla possibilità che si ha di vederli effettivamente all’opera (“omne ignotum pro magnifico est”, direbbe Tacito, e Leopardi assentirebbe convinto). Qualche scarno filmato di pochi minuti una volta alla settimana nella trasmissione Sport sera, mandata in onda quotidianamente sul Secondo Canale RAI poco dopo le 18; e soprattutto Eurogol, sulla stessa rete, sorta di 90° minuto europeo ideato da Giorgio Martino e Gianfranco De Laurentiis, trasmesso in tarda serata al termine dei mercoledì di Coppa, confermano l’idea che oltre frontiera ci sia l’Eldorado per chi ama il calcio: gol formidabili su tiri da distanze siderali (i cosiddetti “eurogol”, appunto, ancor oggi talvolta definiti così), segnature acrobatiche (colpi di testa a volo d’angelo, o di tacco, che da noi il solo Roberto Bettega esibisce in qualche occasione), azioni d’attacco corali e travolgenti da parte di squadre che della massima “primo non prenderle” (il “catenaccio”, insomma) non sanno che farsene. A conferma del basso livello del movimento “pallonaro” italiano, rimasto sostanzialmente arretrato rispetto al calcio totale divulgato poco meno di 10 anni prima dall’Ajax del profeta del gol Johann Cruyff e dalla nazionale olandese – l’impressionante “arancia meccanica” del mondiale 1974 – ci sono i più che modesti risultati delle nostre formazioni nelle coppe europee. Una vittoria del Milan in Coppa delle Coppe nel 1973, una della Juve di Trapattoni in Coppa Uefa dopo una duplice finale contro l’Athletic Bilbao (1977), poi nulla. Persino i belgi del Club Brugge si dimostrano un ostacolo insormontabile per i medesimi bianconeri nella semifinale di Coppa dei campioni del 1978. A livello di Nazionale spiragli di luce si erano visti ai Mondiale del medesimo anno in Argentina: il gioco fresco e coraggioso dei ragazzi di Bearzot aveva fruttato addirittura una vittoria contro i padroni di casa di Daniel Passarella e Mario Kempes, destinati a vincere in modo tutt’altro che limpido un torneo iridato su cui aleggiano tuttora gli orrori del regime del generale Videla. Ma quattro micidiali prodezze balistiche imputate poco generosamente a Dino Zoff (due nella semifinale contro l’Olanda, due nella finale di consolazione con il Brasile) rimandano a casa gli azzurri con un quarto posto alla fine poco soddisfacente. Risultato comunque positivo, se confrontato con l’eliminazione ai quarti di finale degli Europei dell’undici di Bearzot giocati peraltro in casa proprio nel 1980, contro il solito, ostico Belgio dell’anziano centrocampista Van Moer.
A gettare sul tutto un’ombra di definitivo squallore, era arrivato anche il più clamoroso e scioccante scandalo della storia del calcio italiano, il cosiddetto calcio-scommesse. Il primo della serie, gestito non da una “banda di zingari”, o addirittura da scommettitori cinesi, come in casi recenti, ma da personaggi più ruspanti, il “fruttarolo” Alvaro Trinca e il ristoratore Massimo Cruciani, entrambi romani. Indelebile resterà nella memoria di quelli che “c’erano” l’immagine della volante della polizia ferma sulla pista dello stadio Olimpico al termine dell’incontro Roma – Perugia del 23 marzo 1980. Stesso blitz a Genova: compito degli agenti era prelevare direttamente dagli spogliatoi quattro giocatori della Lazio: il portiere Cacciatori, il capitano della formazione portata allo scudetto da Maestrelli nel non lontano ’74 Pino Wilson, e due giovani campioni quali Bruno Giordano e Lionello Manfredonia. Nello stesso momento veniva eseguito in altri stadi l’arresto di diversi calciatori, il più prestigioso dei quali era il portiere azzurro di Mexico ’70, Enrico Albertosi del Milan. Pesantemente coinvolto, come si accennava, anche il Perugia di Ilario Castagner, con tre arrestati (Della Martira, Zecchini e Casarsa) e con il coinvolgimento dell’amatissimo Paolo Rossi, portato tra i grifoni pochi mesi prima grazie ad un’abile operazione di mercato del presidente D’Attoma. Il Milan si vide portare via il centrocampista Giorgio Morini, e addirittura il presidente, Felice Colombo. L’intero paese, pur attanagliato da problemi oggettivamente più gravi, rimase turbato, anche se nessuno all’epoca parlò di quello che oggi potremmo definire “uso sensazionalistico delle manette”, né il termine “giustizialismo” era in voga nel linguaggio giornalistico del tempo. Pochi anni dopo, però, il caso Tortora e, successivamente, l’inchiesta “Mani pulite” avrebbero suscitato interrogativi e dibattiti, ancor oggi vivi, su un certo modo di condurre le indagini da parte delle autorità inquirenti. Peraltro gli arresti risultano ancor più discutibili se si pensa che, per il codice penale dell’epoca, alterare i risultati di eventi sportivi non costituiva reato, come emerse dal processo ordinario, che vide rapidamente prosciolti tutti gli imputati.
La sentenza di secondo grado emessa dalla giustizia sportiva produsse un terremoto in serie A: il Milan fu retrocesso in serie B, e iniziò una penosa serie di vicissitudini (tra cui una nuova retrocessione decretata direttamente dai risultati) da cui si sarebbe risollevato solo grazie all’avvento di Berlusconi ai vertici societari. Fu retrocessa d’ufficio anche la Lazio, mentre pesanti furono le penalità comminate nei confronti di Perugia, Bologna, Avellino. Lunghi furono i periodi di squalifica per buona parte dei giocatori coinvolti (due anni a Rossi, il Pablito mundial). Ma, soprattutto, un pesante discredito su tutto il sistema-calcio del paese. Ci voleva qualcosa di forte, una ventata di novità che riportasse interesse tra gli appassionati delusi e sfiduciati. Si decise, da parte della FIGC, di dar corso al progetto di cui si parlava già da tempo: riaprire le frontiere ai calciatori stranieri.
Sì, perché un’altra notevole diversità rispetto alla nostra epoca, in cui può accadere persino di vedere formazioni interamente composte da giocatori non italiani (Moratti docet…), era questa: fino alla stagione 1979-80 non era permesso alle nostre squadre l’ingaggio di alcun giocatore proveniente da altre federazioni. Ciò in virtù di un veto del 1966, con cui si era inteso reagire ad una delle pagine più negative della storia azzurra: l’eliminazione della nostra nazionale dai mondiali del ’66, in Inghilterra, ad opera della Corea del Nord, una “squadra di Ridolini”, secondo la celebre definizione coniata alla vigilia della partita dall’allora C. T., Edmondo Fabbri. Le classiche “ultime parole famose”.
Il provvedimento , inizialmente, sembrò anche funzionare, almeno stando ai risultati, visto che i nostri, passati alla guida tecnica di Ferruccio Valcareggi, avevano prima vinto – giocando in casa – gli Europei del ’68, poi erano arrivati al secondo posto nella coppa Rimet del ’70, sconfitti sì in finale per 4-1 dal Brasile di Pelè, ma vittoriosi in semifinale nella partita più mitizzata di tutti i tempi (il celeberrimo 4-3 ai supplementari contro la Germania di Beckembauer e Muller). Poi, purtroppo, erano venuti altri episodi negativi: la cocente eliminazione al primo turno (contro la Polonia di Lato e Deyna) nei Mondiali del ’74 in Germania, dove partivamo tra i favoriti; e la mancata qualificazione alla fase finale degli Europei del ’76, anche a causa di un sorteggio sfortunato in un girone di ferro, contro l’Olanda vice-campione del mondo e la Polonia, terza forza del pianeta. Lasciando da parte la valutazione dei risultati degli azzurri, resta il fatto che, dopo 14 anni, la chiusura delle frontiere appariva ormai, nel 1980, anacronistica; e, soprattutto, c’era, come si è detto, l’esigenza di rivitalizzare in qualche modo un campionato giunto forse al livello minimo di interesse. Via libera, dunque, dalla tarda primavera dell’80, alla caccia al campione, vero o presunto che fosse, proveniente dall’Europa o dal Sud America.
Con quali esiti? Diciamo, innanzitutto, che alcune società, appartenenti al novero delle “provinciali”, decisero di rimanere ancorate alla tradizione. Ascoli, Brescia, Cagliari, Catanzaro e Como non si avvalsero della nuova possibilità. Di tale decisione ebbero forse modo di pentirsi solo i dirigenti bresciani, visto che tutte le altre squadre sopra elencate arrivarono comunque alla salvezza. Per quanto riguarda i casi rimanenti, diciamo che il difensore olandese del Torino Van De Korput e il centrocampista dell’Udinese Neumann possono essere rapidamente archiviati come onesti professionisti che non hanno lasciato ricordi particolari. Al rango dei giocatori di indiscusso valore appartengono invece gli acquisti di Fiorentina, Inter e Juventus. I viola pescano in Spagna, dal Siviglia, l’attaccante argentino Daniel Bertoni, campione del mondo e autore di un gol nella finale mondiale che vide nel ’78 vittoriosa la sua nazionale contro l’Olanda. Dopo un paio di stagioni all’ombra della cupola del Brunelleschi, l’ala si trasferirà a Napoli per far coppia con Krol (essendo intanto arrivata una rapida apertura anche al secondo straniero); il tanto sospirato scudetto partenopeo arriverà però solo quando Bertoni sarà sostituito dal connazionale Diego Armando Maradona.
La scelta del presidente nerazzurro Fraizzoli (che era andato assai vicino all’ingaggio di Platini) cade sul centrocampista dell’Austria Vienna Herbert Prohaska. Concreto, affidabile, certo poco suggestivo, verrà ceduto alla Roma, dove contribuirà in modo significativo alla conquista del secondo scudetto giallorosso, quello del 1982-83. E ora, vogliate gradire una mia personale divagazione su Prohaska. Da molti anni il settimanale Panorama dà spazio a una rubrica, Separati alla nascita, che scova somiglianze impensate tra personaggi più o meno famosi. Io allora vorrei proporre l’accostamento tra il giocatore austriaco e l’attore Giorgio Porcaro, esponente in quegli stessi anni del mitico cabaret milanese Derby, dove passò il Gotha della comicità degli anni ’70. Qui, e in pochi film oggi riscoperti (“Si ringrazia la regione Puglia per aver fornito i milanesi”, ad esempio), Porcaro anticipò la parlata apulo-meneghina che rese poi famoso il Diego Abatantuono di Eccezziunale veramente. Se aggiungiamo che pure Teo Teocoli, facente parte della stessa “scuderia” comica, si divertiva ad imitare i baffi e la criniera di Porcaro, allora il gioco delle somiglianze si complica ulteriormente, come potete vedere voi stessi.

Giorgio Porcaro - Herbert Prohaska

Tornando ai buoni giocatori giunti in Italia nel 1980, dobbiamo ricordare il bianconero irlandese Liam Brady, approdato alla corte dell’avvocato Agnelli dall’Arsenal per vestire la maglia numero 10. Dotato di notevole tecnica, fu tra i protagonisti del duplice successo juventino nel campionato 80-81 e 81-82, per poi vestire con onore le maglie di Sampdoria e Inter.
Un paio di gradini al di sopra di questi tre atleti collocherei l’olandese Ruud Krol, che fu il regalo del presidente del Napoli Ferlaino ai suoi tifosi. Terzino di grandi doti atletiche, ma provvisto anche di una notevole tecnica, dopo gli anni esaltanti all’Ajax si trasformò in libero di classe negli ultimi anni della sua carriera. Anche grazie al suo carisma, la squadra partenopea, allenata da Rino Marchesi, arrivò in quella stagione al terzo posto, dopo aver lottato a lungo con Juve e Roma per il primato in classifica.
Il vero fuoriclasse però, il principale top-player arrivato nel Bel Paese con la prima ondata di stranieri di cui stiamo parlando, fu il giallorosso Paulo Roberto Falcão.

Falcao

Campione dalla classe assoluta, elegantissimo nell’incedere, il Divino (così lo ribattezzarono presto i tifosi romanisti) era un brasiliano atipico, poco incline al solito repertorio di dribbling e colpi di tacco (materia nella quale, quando necessario, dimostrava comunque di non essere affatto carente). Erano gli anni in cui, da noi, la numerazione delle maglie andava dall’1 all’11, ed ogni numero era legato in modo preciso ad un ruolo. Il 5 era il segno distintivo dello stopper, il difensore addetto – in epoca di marcature rigorosamente a uomo – al controllo del centravanti avversario. Nel 1980 però i tifosi italiani impararono che in Brasile il numero 5 era riservato a un giocatore molto particolare, il cabeça de area (definizione che preferisco per la sua carica evocativa al termine analogo volante), un regista arretrato capace di illuminare il gioco con lanci sapienti e di vivacizzarlo con improvvise discese verso la porta avversaria. Falcão era questo, ma anche di più: era un vero genio del calcio, e un atleta eccellente, capace di essere in qualunque zona del campo al momento giusto senza apparente sforzo. Un leader vero, e con lui, con Bruno Conti, con Roberto Pruzzo e Agostino di Bartolomei, sotto la direzione tecnica del vecchio Nils Liedholm, lo scudetto non poteva non arrivare; e arrivò infatti, nel 1982 – 83 , e poco ci mancò che non arrivasse, l’anno dopo, anche la Coppa dei Campioni. Ma questa è un’altra storia.
Resta ancora da dire degli ultimi personaggi, neanche a dirlo tre brasiliani, ognuno diverso dall’altro per qualità tecniche e per quelli che saranno gli esiti della loro carriera.
Il primo è un centravanti freddoloso e predisposto alla saudade venuto a Bologna da Sao Paulo. Eneas de Camargo, si chiama, e appena arrivato, si conquista la simpatia dei tifosi, che lo chiamano al nigrazz. Che, è facile intuirlo, si traduce “il negraccio”, termine orrendo senza ombra di dubbio; tuttavia, l’animo dell’appassionato di calcio bolognese era (ed è ancora, si spera) lontano mille miglia dalle amenità alla Borghezio e Calderoli, ed il termine dialettale sopra citato (che, fateci caso, suona come una grassa risata), per quanto non sia facile crederci, era usato senza alcuna intenzione razzista. Sono anche, lo ripetiamo, anni lontani e diversi dai nostri; le finezze del politically correct – atteggiamento che è ipocrita quando è solo esteriore, ma diventa elemento di civiltà se è accompagnato da un rispetto sincero e autentico del prossimo – sono ancora lontane: basti pensare che – nel luglio 1980 – il Resto del Carlino alludeva all’arrivo di Eneas annunciando che un “moretto” (chi mai si esprimerebbe così oggi?) era approdato sotto le Due Torri. Ma, per concludere questa difesa d’ufficio del supporter felsineo, avete mai sentito parlare di disordini, di episodi di intolleranza o di accoltellamenti fuori o dentro il Dall’Ara? Il bolognese è uno che allo stadio ci va per divertirsi, che non si sognerebbe mai di dannarsi l’anima (e la vita) per una presunta ingiustizia arbitrale, e che, se si lascia andare a una battuta un po’ troppo pesante, la stempera subito con un sorriso che significa: “Stiamo solo scherzando”.
La squadra in cui Eneas si trova a dover dare il suo contributo – che alla fine risulterà modesto, complice anche un lungo infortunio: 20 presenze e 3 gol – ha un compito arduo: raggiungere la salvezza nonostante i cinque punti di penalità decretati dalla giustizia sportiva per la vicenda del calcio-scommesse. La banda guidata dal carismatico Gigi Radice fa molto di più: compete con le prime, e con i risultati effettivamente ottenuti avrebbe raggiunto quota 34, ovvero sarebbe stata la quinta forza del campionato subito dopo l’Inter, campione uscente. Merito del coach, poche stagioni prima sugli scudi per lo scudetto vinto con il Torino dei gemelli del gol Pulici e Graziani; ma merito anche di due giovani centrocampisti i cui nomi diventeranno famosi: Beppe Dossena e Franco Colomba. Ce n’è abbastanza per soddisfare la platea bolognese, che ricorderà a lungo quest’annata; e a fine campionato, nel corso delle classiche discussioni post-partita, tirando le somme della stagione un tifoso pronuncerà la frase rimasta famosa nella città petroniana: “ma va là, che anca al nigrazz l’era bon”; in cui, alla constatazione del fatto che Eneas non fosse risultato un acquisto molto azzeccato, si mescola il rammarico per la mancata espressione di potenzialità tecniche che, effettivamente, c’erano. Solo otto anni dopo il ragazzo di Sao Paulo morì, nella sua città, in seguito a un incidente stradale. Tutta Bologna lo pianse, e molti di sicuro in città lo ricordano ancora.

E ora spostiamoci ad Avellino per parlare di Jorge Dos Santos Filho, detto Juary. Qui però sono costretto ad aprire una di quelle mie digressioni che rischiano di diventare proverbiali.
Sono, questi, gli anni in cui il calcio italiano trova nelle cosiddette “provinciali” un elemento irrinunciabile, che va ben al di là del folklore. Sono, ovviamente, le squadre di piccole città che non possono contare su ingenti capitali, ma sulla passione dei tifosi che – da intere province, se non addirittura regioni – fanno convergere il loro sostegno su formazioni guidate in genere da allenatori esperti e non di rado pittoreschi (il mitico Oronzo Pugliese ne è un esempio); in esse trovano spesso posto giovani talenti destinati a esibirsi davanti alle grandi platee, e anche vecchie glorie desiderose di far vedere ancora per qualche tempo quanto valgono. I presidenti, poi, sono un capitolo a parte: figure di imprenditori locali scaltri e arruffoni, talvolta non esenti da qualche guaio con la giustizia. Tra gli altri, ce ne sono quattro che si distinguono per essere costantemente definiti – nelle cronache sportive e nel mitico Processo del lunedì di Aldo Biscardi, che va affermandosi proprio a partire dal 1980 – vulcanici. Il vulcanico Rozzi dell’Ascoli, il vulcanico Anconetani del Pisa, il vulcanico Massimino del Catania e il vulcanico Sibilia dell’Avellino, appunto. Il termine sta a indicare personaggi che si guardano bene dall’emulare lo stile Juventus (il perfetto aplomb di marca britannica adottato dall’avvocato Agnelli), che siedono in tribuna ma si comportano più da tifosi sfegatati che da impeccabili gentlemen. Tipi che non le mandano a dire, ma le cantano chiare a tutti, in un italiano spesso approssimativo, se non addirittura in dialetto. Celebre a questo proposito l’aneddoto dello scambio di battute tra Sibilia e un giornalista locale, proprio riguardo l’acquisto del giovane brasiliano.

Presidente Sibilia: “Fummo andati in Brasile e comprammo Juary…”
Giornalista sorridente: “Siamo…”
Presidente, un po’ spazientito: “Dicevo che fummo andati in Brasile a comprare…”
Giornalista, con sorriso mal trattenuto: “Presidente… SIAMO!”
Presidente, con tono iracondo: “Ma che, si’ venuto pure tu?”

A onor del vero, nel 1980 la poltrona di massimo dirigente dell’Unione Sportiva Avellino era ufficialmente occupata da Fausto Maria Sara, ma il patron resta Sibilia, protagonista in seguito di un altro episodio, stavolta inquietante. Durante una pausa nel corso di uno dei tanti processi a Raffaele Cutolo (efferato criminale ma anche ispiratore di artisti intellettuali quali Tornatore, De Cataldo, e De André nella famosa “Don Raffaè”), il vulcanico – lasciatelo dire anche a me – imprenditore irpino si avvicina al boss della Nuova Camorra Organizzata e, accompagnato proprio da Juary, bacia “o’ professore”, poi, tramite lo stesso giocatore, consegna una medaglia che attesta gli ottimi rapporti che corrono tra la società biancoverde e il criminale. Il celebre cronista RAI Luigi Necco – uno dei volti più amati di 90° Minuto – parla dell’accaduto in un’inchiesta televisiva sui rapporti tra calcio e malavita organizzata. Fine dell’episodio in sé. Incidentalmente aggiungo che il giornalista fu, in seguito, vittima di un attentato, mentre si trovava con amici in un ristorante. Fortunatamente gli spararono solo alle gambe. Le indagini successive dimostrarono il diretto rapporto tra l’episodio avente per protagonisti Sibilia e Juary, e il ferimento del giornalista, voluto, pare, non da Cutolo, ma dal noto pregiudicato Vincenzo Casillo.
Tornando a Juary, va detto che ciò che lo rese più famoso e popolare, fin dalla prima stagione all’Avellino, fu il suo modo di esultare (perché segnava, e con una certa regolarità). Un triplice giro – definito danza – intorno alla bandierina del calcio d’angolo, che può essere considerato l’antesignano di tanti gesti più o meno originali e sopra le righe cui oggi siamo abituati in occasione di un gol.


Il piccolo brasiliano resta in Irpinia un paio di stagioni, poi, con il trasferimento all’Inter e in seguito alla Cremonese – dove poche sono le sue presenze e ancor meno i gol – sembra inesorabile la china discendente. Tant’è che in Italia non lo prende più nessuno. Ma lo vuole il Porto, con il quale vince il campionato lusitano, e si ritrova in finale di Coppa dei Campioni. È il 27 maggio 1987, e nonostante lo svantaggio iniziale, l’ex avellinese, subentrato dalla panchina, stende il Bayern di Lothar Matthaeus. Prima fornisce l’assist per il pareggio di Rabah Madjer (fantasista algerino incline al colpo di tacco); poi la mette dentro lui stesso, e diventa il re della storica serata. Chissà se in Sibilia sarà stato più forte l’orgoglio di averlo scoperto lui, quel piccolo campione, o il rammarico per averlo lasciato andar via.


E veniamo a Luis Silvio Danuello della Pistoiese, il “bidone” dell’anno per antonomasia (nulla può contro di lui l’argentino del Perugia Elio Sergio Fortunato, bidone sì, ma talmente anonimo da non aver trovato spazio neppure nell’album dei calciatori Panini di quell’anno). Lascia l’Italia dopo una sola stagione del tutto insignificante, ma anni dopo cominciano a fiorire strani aneddoti su di lui: che sia stato ingaggiato in seguito a un buffo qui pro quo linguistico (la Pistoiese cercava un centravanti, Luis Silvio si propose come ponta, che in portoghese significa “ala”); che la sua squadra di provenienza, il Ponte Preta, avesse organizzato, contro il modesto Commercial, un’amichevole “farlocca” in cui tutto era orchestrato ad arte allo scopo di far apparire Danuello un craque (ossia un top-player detto alla sudamericana) agli occhi degli osservatori del club arancione; che, abbandonato il calcio, sia riapparso nella città toscana nelle vesti ora di pizzaiolo, ora in quelle di venditore di gelati all’interno dello stadio; addirittura, che si sia visto, senza vesti questa volta, in fantomatici filmini hard. Leggenda metropolitana, quest’ultima, come pure le altre. Di certo, più che le prestazioni erotiche di Luis Silvio sarebbero dovute incorrere nei rigori della censura le sue modeste giocate; ma ancor più i dirigenti della Pistoiese che lo scelsero. Ad essi però va riconosciuta l’attenuante di non essere stati gli unici a farsi incantare da presunte sirene straniere; negli anni successivi, società ben più note, e a prezzi assolutamente incomparabili, si sarebbero lasciate gabbare da abili venditori di fumo, sudamericani e non.
E di questo, magari, parleremo un’altra volta.

2 pensieri su “Come eravamo – 1980, ovvero: dal tramonto di Mao al mito di Falcão

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