Alegria do Povo

Futebol, ovvero, tristezza e allegria di un popolo

Proviamo a raccontare la nostra storia come se fosse una favola, come se per credere a questa serie di disavventure persino tragiche, ma compensate dal lieto fine, fossero indispensabili l’ingenuità e l’immaginazione che abbiamo da bambini.

Pensiamo allora a un continente lontano (“quasi alla fine del mondo”, direbbe uno che di quelle terre e delle contraddizioni che vi regnano se ne intende). Un continente popolato da gente di ogni tipo: affaristi di origine occidentale dalla mente invasata e dagli azzurri occhi selvaggi (sul tipo del protagonista del film “Fitzcarraldo” di Werner Herzog); neri portati qui come schiavi dall’Africa, cui qualcuno ha poi donato la libertà senza preoccuparsi molto di dar loro anche una vita degna; emigranti giunti dai paesi più poveri d’Europa (tanti italiani, per esempio, come emerge dal mitico “Dagli Appennini alle Ande” di De Amicis); e infine indios, gli abitatori originari del continente, decimati dalla ferocia e dall’avidità di tutti, costretti a rintanarsi nel cuore delle foreste più intricate ma mai abbastanza irraggiungibili.

In questa parte di mondo i missionari bianchi hanno portato la religione cattolica, con le buone o con le cattive (esemplare in questo senso il film “Mission”). Siccome poi sono posti, questi, dove la vita può essere terribile e forte è il bisogno di sperare in una mano dall’alto, alcune etnie hanno pensato bene di affiancare al Dio e ai santi del cattolicesimo altre divinità, più o meno potenti e benevole (orixas, le chiamano, e ne parla anche Jorge Amado nei suoi romanzi). Ma nelle lande sconfinate di cui stiamo parlando la fede sembra non bastare mai, e allora anche il calcio – altro prodotto importato, in fin dei conti, dall’Europa – può diventare una religione, qualcosa che aiuta a illudersi e a sognare.

Ma c’è un paese, a queste latitudini, dove, molto più che altrove, il gioco più bello è diventato un credo nazionale, un motivo di orgoglio, qualcosa che ha a che fare con l’arte e con la magia. Adesso immaginate che qui, dopo le prime due edizioni dei campionati mondiali (1930 e 1934), disputate con esiti modesti, comincino a credere di avere giocatori davvero forti, e di poterla portare a casa, quella coppa che fa sognare i tifosi di tutto il mondo e che chiamano Rimet in onore del francese ideatore della competizione. Nel 1938 la terza edizione dei Mondiali si giocherà in Francia, e qui viene spedita, dal paese di cui stiamo parlando, una signora squadra (seleção, la chiamano); indossa una tenuta completamente bianca con risvolti blu ed è guidata da un centravanti che ha il nome di un eroe greco. E’ un gran goleador, costui, e rinomato esecutore (dicono addirittura l’inventore) di quel pezzo di bravura che i tifosi, sempre così immaginifici, chiamano “tiro em bicicleta” e che per noi è la “rovesciata”. Cose normali, da quelle parti, dove segnare è certo decisivo quanto altrove, ma conta anche quanto e come. Bisogna farne tanti, di gol, e belli, per divertire davvero quel popolo che le immagini stereotipate vogliono sempre sorridente, ma che avrebbe tante ragioni per essere triste. E allora, tutti allegramente all’attacco, magari cercando di entrare in porta con la palla dopo una serie di dribbling (“ubriacanti”, ovvio); e non devono mancare colpi di tacco, tunnel e, appunto, rovesciate.

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La seleção raggiunge la Francia, dunque, ma i pronostici degli esperti internazionali non possono essere molto favorevoli, anche perché nelle due passate edizioni c’è stato poco da fare per chi veniva da un altro continente; si era già instaurata, a questo proposito, quella legge che, ad oggi, è stata violata solo due volte. In ogni caso, i nostri arrivano in semifinale, contro l’Italia campione in carica. Segna Colaussi, ma finché gli azzurri sono in vantaggio per uno a zero tutto può ancora succedere. Ma a metà del secondo tempo viene fischiato un rigore per l’Italia. Il tiro spetta a Meazza, però davanti a lui c’è un portiere che ha la fama di saper parare i rigori. Al mitico Peppino detto “Balilla” capita un infortunio potenzialmente assai comico: gli cede l’elastico dei calzoncini. Durante la rincorsa è costretto a rallentare un paio di volte per reggere l’indumento con la mano sinistra; questo disorienta il para-rigori, che di fronte a un tiro comunque potente nulla può: due a zero, e fine dei sogni anche questa volta. A nulla servirà accorciare le distanze all’87’. Alla fine del torneo i bianco-blu risulteranno terzi, con il centravanti acrobata primo nella classifica-marcatori. Prestigioso, certo, ma il popolo vuole di più, molto di più.

Un anno dopo il pianeta sarà sconvolto dalla II guerra mondiale, e di Coppa Rimet non si parlerà per ben 12 anni. Il 1950 è l’anno buono per ripartire con la grande manifestazione, ma c’è un particolare di enorme importanza: a organizzare il tutto viene designato proprio il nostro grande paese. Questa volta la seleção non deve fallire, non può, assolutamente. Ogni aspetto è meticolosamente curato, e nella capitale si realizza un nuovo stadio. Ora, quanti spettatori deve contenere un impianto per essere ritenuto degno delle partite decisive di un mondiale? Cinquantamila non sono pochi, ma magari ne servirebbero di più per spingere i ragazzi in maglia bianca alla conquista della tanto agognata coppa. Allora ottantamila? E perché non centomila? Ma siccome questo è un paese gigantesco nelle dimensioni ma anche nella follia per il calcio, si decide di giocare al raddoppio: duecentomila, stipati contro ogni logica e contro quelli che sarebbero oggi i protocolli di sicurezza, e non se ne parli più.

Perché, davvero, chi può batterla, questa volta, la seleção? Ci sono gli inglesi, che in passato al torneo mondiale non hanno mai voluto prendere parte, convinti che la loro superiorità di inventori e maestri del gioco non avesse bisogno di ulteriori attestati. Nel 1950 decidono di abbassarsi al livello degli altri, partecipando alla competizione, e il risultato è una clamorosa umiliazione: fuori al primo turno, con tanto di sconfitta contro gli yankees, considerati gli ultimi arrivati nel football (tant’è che non si rivedranno ai Mondiali fino al 1990). Gli azzurri italiani – traumatizzati dal recente schianto di Superga, che aveva annientato e consegnato direttamente alla leggenda una delle più forti squadre di tutti i tempi, il grande Torino – evitano il passaggio aereo e affrontano una snervante navigazione transoceanica, al termine della quale li aspetta una rapida eliminazione, decretata dalla sconfitta contro la Svezia. E che dire dell’Uruguay, vincitore (in casa) della prima edizione della Coppa Rimet? Viene giudicata una compagine dal modesto tasso tecnico, tanto che il suo capitano, il giocatore-simbolo, è Obdulio Varela, un roccioso centromediano; figuriamoci, roba da far ridere gli appassionati e gli esperti del grande paese in cui tutti coloro che giocano al calcio vogliono essere adorati per i gol fatti, per le giocate raffinate e acrobatiche e per tutto il repertorio di finezze che manda in visibilio le folle.

Basta, questa volta il Mondiale sarà loro. Si tratta solo di sbrigare la formalità di giocare, e vincere, una manciata di partite. Tutto fila liscio al primo turno, al termine del quale sono rimaste in lizza quattro squadre, che – caso destinato a rimanere unico nella storia del torneo – non si affronteranno nelle classiche semifinali, ma disputeranno un girone all’italiana che incoronerà la nazionale campione del mondo. Una piccola furbizia del paese organizzatore, forse, visto che è possibile anche per uno squadrone sbagliare un match, ma su tre partite è difficile che a risultare primo non sia il team migliore. Ma la convinzione di essere superiori a tutti è tale che, probabilmente, la spiegazione è un’altra: si vuole rendere un po’ più ricco ed interessante un torneo povero di partecipanti a causa della defezione di tre nazionali già qualificate (per la cronaca: India, Turchia e Scozia). Fatto sta che un’intera, gigantesca nazione è convinta di avere gli undici migliori del mondo, che arriveranno al trionfo finale spinti dal tifo folle di duecentomila esaltati.

Tutto va per il verso giusto, e si arriva all’atto conclusivo, all’ultima partita del girone finale, proprio contro l’Uruguay. Solo un mero adempimento formale, perché non c’è neppure bisogno di vincere, basta un pari e finalmente la coppa potrà essere alzata al cielo. Bisogna aspettare l’inizio del secondo tempo, ma il gol del vantaggio arriva. E’ fatta, davvero, che può mai succedere? Succede che l’Uruguay pareggia, con Schiaffino, un fuoriclasse che sarà poi fondamentale nel Milan. Poco importa, si sa che è sufficiente il pareggio; ma un lieve nervosismo comincia a serpeggiare. E quello che nessuno dei duecentomila osa anche solo pensare accade. L’Uruguay passa in vantaggio, con un diagonale di Ghiggia (anche lui verrà a giocare in Italia), cui tenta di opporsi in modo forse non impeccabile il portiere della seleção. In un silenzio irreale scorrono gli ultimi minuti, il pareggio non arriva, gli uruguagi sono consacrati per la seconda volta campioni del mondo, mentre un paese intero entra in un clima di tragedia, con tanto di vittime. Le prime si contano già all’interno del mega-stadio: qualcuno si suicida lanciandosi nel vuoto fuori dall’enorme catino, qualcun altro è tradito dal cuore che non regge a tanta sofferenza. Altri morti ancora si registreranno altrove; e questo sarà sempre ricordato come il disastro del 16 luglio 1950.

Tra i risvolti più tristi di questa surreale vicenda, c’è la sorte del povero portiere, additato da tutti come responsabile dell’immane disastro. Vivrà a lungo, cercando inutilmente di farsi dimenticare; continuerà invece ad essere ricordato come l’uomo che un giorno fece piangere tutti i suoi connazionali, mentre si diffonde la crudele superstizione secondo cui un ragazzo dalla pelle nera può andare bene in qualsiasi ruolo, tranne che in porta, perché – i fatti lo hanno dimostrato incontrovertibilmente – porta sfortuna.

La vergogna è tanta che la nazionale non disputa neanche un incontro per due anni. Poi ci si rassegna a tornare in campo per le qualificazioni ai mondiali del 1954, in Svizzera. Si parte per l’Europa senza alcuna illusione di vittoria, e difatti l’eliminazione arriva puntuale, ad opera della grande Ungheria del fuoriclasse Puskas. La seleção è ormai passata a un’altra tenuta, dai colori verde e oro presi dalla bandiera nazionale; il tentativo è quello di cancellare il più possibile la memoria dell’ignominia, che appare comunque indelebile.

Però, ogni palingenesi richiede che si tocchi il fondo, prima. Si arriva alla nuova edizione della massima tenzone, nel 1958, in Svezia. Forse la hubrys punita, come in una tragedia greca, ha sortito il suo effetto; più importante ancora è la formazione che il nuovo commissario tecnico può mettere in campo in questa occasione. In ogni caso, questa volta le cose prendono una piega diversa. C’è un portiere (bianco, manco a dirlo) che dà assoluta sicurezza; due difensori laterali insuperabili e raffinati, che andranno a formare una coppia proverbiale, anche per via della quasi omonimia; centrocampisti e attaccanti che sono veri campioni; ma soprattutto ci sono due fenomeni assoluti.

Il primo è un giovanissimo fuoriclasse nero, cui il dio del calcio, tante volte evocato dal maestro Gianni Brera, sembra aver regalato praticamente tutto: perfetto controllo di palla con entrambi i piedi, tiro preciso e quando serve anche potente, elevazione straordinaria che gli consente eccellenti giocate aeree nonostante la statura non eccelsa, capacità acrobatiche e l’imprescindibile abilità nel seminare l’intera difesa avversaria un dribbling dopo l’altro. In più, carattere, personalità, e una correttezza adamantina. Già da questa edizione della Coppa Rimet riceverà la consacrazione a miglior calciatore del mondo; lo rimarrà per tutto il tempo della sua attività calcistica, e vano sarà forse il tentativo di accostargli – o addirittura dichiarare superiori – prima Maradona, poi Messi.

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Ma il vero personaggio da favola, quello con cui chiudiamo questo racconto, triste e gioioso al tempo stesso, è l’altro fenomeno. In lui eccezionale è innanzi tutto lo stesso essere un calciatore, per il semplice fatto che ha una gamba più corta dell’altra. Sì, avete capito bene, è zoppo, uno che il calcio dovrebbe limitarsi a guardarlo giocato dagli altri. Invece lui, fin da bambino, gioca, solo per divertirsi, lasciando tutti a bocca aperta per la straordinaria abilità nel dribbling. Non sono solo quei sei centimetri di differenza tra una gamba e l’altra, ma anche le ginocchia, affette rispettivamente da varismo e valgismo, a far apparire impossibile che quel ragazzo poverissimo semini tanto facilmente qualunque avversario; ma forse è proprio quell’andatura sbilenca a stregare i difensori, che finiscono sempre per abboccare alla medesima finta. Accenna a scattare sulla sua sinistra, poi improvvisamente si sposta sulla destra, trovando ampio spazio sulla fascia. Da lì fornisce palloni facili da insaccare agli attaccanti, oppure tira lui stesso, con forza e precisione. Ma tutto questo solo tra ragazzi, o in piccole squadre di dilettanti. Al professionismo non ci pensa proprio, ingenuo e svagato com’è. I provini glieli organizzano gli amici, e lui più di una volta li fallisce, perché se ne dimentica, o si presenta senza scarpini. Alla fine però un grande club della capitale lo ingaggia, nonostante la perplessità dei medici, soprattutto per il parere favorevole di un grande difensore della squadra che durante la partitella si è visto sistematicamente superare dal ragazzino. Arrivano i soldi, arriva la nazionale, ma lui resta sempre l’eterno bambino ingenuo e un po’ strambo. Partecipa ai mondiali del 1958, e dà un contributo fondamentale alla vittoria che finalmente riscatta tutte le sofferenze di otto anni prima. Alla fine del match, vinto nettamente contro i padroni di casa, mentre tutti piangono e festeggiano, lui si avvicina al suo capitano e chiede spaesato: “Ma quando giochiamo la partita di ritorno?”.

La seleção rientra in patria, per essere travolta dal delirio festante di una nazione intera. Il ragazzo dalle gambe storte è forse il più amato e osannato tra i semidei autori dell’impresa che da quelle parti sarà cantata con toni degni degli Argonauti. I campioni del mondo vengono invitati nella grande villa del presidente.

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Durante il ricevimento, lui, come sempre perso nelle sue fantasie, gironzola tra le sale della lussuosa residenza, e improvvisamente vede una gabbietta con dentro un uccellino: è un passerotto, di una specie molto diffusa dalle sue parti. Fin da piccolo lui è stato soprannominato proprio “uccellino”, e quello è rimasto il suo apelido, il nomignolo che praticamente ogni giocatore, tranne rarissimi casi, deve avere. Il campione torna al centro della festa, proprio mentre il presidente (democraticamente eletto; fatto da sottolineare, in un paese e in un continente dove le dittature militari sono state numerose e proverbialmente feroci, come dice Daniel Pennac nel suo romanzo “Ecco la storia”) sta chiedendo ai giocatori verde-oro di esprimere un desiderio per uno; saranno esauditi, e questo sarà il suo premio per il trionfo tanto sospirato. Tutti fanno richieste abbastanza prevedibili: case, automobili, denaro. Ma quando arriva il turno dell’imprendibile ala dalle gambe storte, tutti trasecolano: vuole che il presidente lasci volare via l’uccellino chiuso in gabbia. E nulla più.

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Potrebbe esserci finale più commovente per una favola? Potrebbe esserci un modo più aereo e poetico per concludere? Solo che questo racconto non è una favola; è tutto vero, o quasi. Non c’è lettore che non abbia capito che il continente è il Sud America, che il paese follemente innamorato del calcio è il Brasile, e che il miglior dribblatore di tutti i tempi, quello con cui si chiude la storia, è Garrincha. Tra i tanti nomi che ho taciuto, voglio precisarne solo pochi: il centravanti presunto inventore della rovesciata era Leonidas; il portiere beffato su rigore da Meazza si chiamava Walter, e il suo sfortunato collega cui venne ingiustamente addebitato il Maracanazo, cioè il disastro del mancato successo del 1950 (l’unica partita della storia del calcio ad essere menzionata con un termine appositamente coniato), portava il nome di Moacyr Barbosa. A lui, anni fa, uno dei più ispirati aedi di storie calcistiche, Darwin Pastorin, ha dedicato un libro bello e commovente. La storia della liberazione del passerotto dalla gabbia, forse, è una leggenda; ne circolano varie versioni, ma già questo basta a rendere l’idea della dimensione fantastica che il calcio e i suoi eroi possono assumere nel paese di cui tanto abbiamo parlato.

Se fosse una favola, non avremmo altro da aggiungere. Ma non lo è, e allora sarà necessario accennare al fatto che la vita di Garrincha è stata anche triste. Dopo un secondo trionfo mondiale, nel 1962 in Cile, per il quale il suo apporto fu superiore a quello dello stesso Pelè (il fuoriclasse assoluto cui si è accennato nel racconto), inizia la lenta china discendente di Garrincha. Eccessi, amori sbagliati, cattiva gestione del patrimonio accumulato; tutto ciò lo portò a vivere in modo misero e infelice gli ultimi anni di un’esistenza fin troppo breve. Quando si spense, il 20 gennaio del 1983, non aveva ancora cinquanta anni. Morì alcolizzato, di cirrosi epatica, proprio come suo padre. Questo mi fa pensare ad Émile Zola e al determinismo biologico e sociale che caratterizza i suoi romanzi; l’autore di “Nanà” avrebbe saputo narrare questa storia di ascesa e caduta di un idolo delle folle con il giusto distacco, soffermandosi con crudo realismo sui particolari meno edificanti. Noi preferiamo ricordare Garrincha come il simbolo dell’anima del suo paese, dove tutt’ora è idolatrato e definito nel modo che meglio riassume il senso della favola che abbiamo cercato di raccontare: alegria do povo, allegria del popolo. Quello che Garrincha è stato e resterà per sempre.

P. S. : dedico questo articolo ai miei due amici Lorenzo e Stefano; al primo, perché meglio di chiunque conosce e comprende la poesia di Garrincha e del calcio brasiliano; al secondo, perché gli devo la lettura di Pennac.

4 pensieri su “Futebol, ovvero, tristezza e allegria di un popolo

  1. Anonimo

    I miei più vivi complimenti per l’articolo, è scritto benissimo, resto informato nella speranza di prossimi di questo genere!!!

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  2. mari

    Racconto ricco e avvincente, anche per chi di sport non sa e non capisce. Bella mossa, poi, la hybris applicata al pallone! Insomma, vera scrittura da campioni.

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