Cicerone

Delitto e castigo ai tempi di Cicerone

Temeritas et libido et ignavia semper animum excruciant et semper sollicitant turbulentaeque sunt, sic improbitas, si cuius in mente consedit, hoc ipso, quod adest, turbulenta est; si vero molita quippiam est, quamvis occulte fecerit, numquam tamen id confidet fore semper occultum. Plerumque improborum facta primo suspicio insequitur, dein sermo atque fama, tum accusator, deinde iudex; multi etiam ipsi se indicaverunt. Quodsi qui satis contra hominum conscientiam saepti esse et muniti videntur, deorum numen horrent easque ipsas sollicitudines, quibus eorum animi noctesque diesque exeduntur, a diis immortalibus supplicii causa importari putant. Quae autem tanta ex improbis factis ad minuendas vitae molestias accessio potest fieri, quanta ad augeendas, cum conscientia factorum, tum poena legum odioque civium? Et tamen in quibusdam neque pecuniae modus est neque honoris neque imperii nec libidinum nec epularum nec reliquarum cupiditatum, quas nulla praeda umquam improbe parta minuit, sed potius inflammat, ut coercendi magis quam deducendi esse videantur.
Questo brano di Cicerone, tratto dal De finibus bonorum et malorum (I,50-51), ci offre interessanti spunti di riflessione sul problema del male così come veniva affrontato nel mondo romano.
L’improbitas (che è il contrario della probitas, ovvero la rettitudine), è vista dal grande oratore come un vizio, un male dell’animo, ed è paragonata ad altre passioni negative, come la temeritas, la libido, l’ignavia. Quando questi elementi si insediano nel cuore di un uomo, ecco che l’inquietudine diventa predominante, turbando o impedendo del tutto quella serenità che dovrebbe essere l’obiettivo dell’uomo ragionevole o, nella sua forma più completa e appagante, del vero e proprio sapiente. L’improbitas può essere un’inclinazione che difficilmente, però, rimane allo stato di potenzialità latente; il più delle volte spinge concretamente l’uomo a commettere atti malvagi che, per ciò stesso, sono contrari alle regole dell’umana convivenza, e dunque alla legge. Per quanto possano agire nell’ombra, i malvagi non possono mai davvero sperare che i loro crimini rimangano impuniti: suspicio, sermo, fama, accusator, iudex sono i nemici contro cui i rei devono combattere, con sempre minore possibilità di successo. E ancora più ardui da affrontare sono la conscientia, il rimorso, e l’ira delle divinità. A proposito della cattiva coscienza, Cicerone riporta con molta semplicità quello che ritiene essere un dato di fatto: multi etiam ipsi se indicaverunt; qui naturalmente non possiamo non cogliere una suggestione che ci rimanda a Delitto e Castigo di Dostoevskij.


Alcuni possono essere talmente ostinati e induriti da resistere alle crisi interiori; ma tutti devono temere la collera degli dei, che si traduce poi in insopportabili tormenti dell’animo. Ovviamente, qui vengono in mente le Erinni che, nella terza tragedia dell’Orestea di Eschilo, le Eumenidi, perseguitano Oreste dopo il matricidio da lui commesso. Come è noto, infatti, l’eroe greco aveva ucciso la madre Clitennestra per vendicare la morte del padre, Agamennone, a sua volta trucidato da Clitennestra stessa, che aveva a lungo atteso il ritorno del marito dall’assedio di Troia, per punirlo con la morte del sacrificio che il sovrano aveva compiuto prima della partenza, immolando ad Artemide la figlia Ifigenia. Certo, Cicerone è lontano secoli da Eschilo, che a sua volta aveva riportato un mito ancestrale sulla base del quale intendeva ribadire la sacralità della giustizia. Non si dimentichi, infatti, che il supplizio cui le Erinni minacciano di sottoporre Oreste è scongiurato grazie ad un regolare processo nel corso del quale uomini (i giudici dell’Aeropago ateniese) e dei (Apollo e Atena) esaminano il caso con profondità e saggezza
In Cicerone, portavoce di una visione del mondo ancor più razionalistica di quella greca, le divinità sono chiamate in causa in modo più formale che sostanziale, come garanti ideali di un ordine costituito nel quale diritto e religione sono espressione della medesima identità nazionale. L’oratore romano si colloca quindi all’inizio di una lunghissima fase di transizione che porterà l’uomo da una concezione mitico-magica (già parzialmente tramontata, almeno presso l’elite culturale romana) ad una interpretazione dell’agire umano basato sì su fattori storico-economico-sociali, ma anche, specie a partire dal XIX secolo, su un’approfondita analisi della psiche umana e dei suoi abissi, in cui la razionalità fatica ad addentrarsi. Al punto d’arrivo di questo processo troviamo proprio Dostoevskij.

Il protagonista di Delitto e castigo, Raskolnikov, uccide per motivi non facilmente spiegabili, ma che comunque Cicerone non potrebbe mai comprendere. Nel brano che da cui siamo partiti, infatti, l’antagonista di Catilina elenca i motivi per i quali gli uomini continuano a delinquere, nonostante sia evidente che le conseguenze negative degli atti criminosi (il rimorso, le pene imposte dalle leggi, l’odio da parte dei concittadini) superano di gran lunga i presunti vantaggi. Lo studente protagonista di quello che è uno dei grandi romanzi dostoevskijani sopprime una vecchia usuraia non tanto per i benefici pratici che potrebbe ricavarne, quanto per mettere alla prova se stesso, per vedere se ha l’animo di un Napoleone che calpesta con suprema indifferenza le leggi esistenti per istituirne di nuove. I motivi che Cicerone elenca, nel finale del frammento tratto dal De finibus, sono comunque riconducibili a fattori utilitaristici: pecunia, honos, imperium, libidines, epulae, cupiditates. Tutti elementi che possono essere ancora allettanti per l’uomo moderno, ma che non bastano comunque a spiegare i comportamenti degli eroi di questo nuovo tipo di romanzo.

In Dostoevskij c’é poi un altro aspetto che né Cicerone né, in seguito, Dante avevano potuto prendere in considerazione: il male commesso dall’uomo per il semplice gusto di commetterlo, l’atto malvagio gratuito e per questo ancor più terribile. Da questo punto di vista il personaggio più rappresentativo è il protagonista di uno dei più inquietanti testi del grande russo, I demoni, cioè Stavrogin, detto “il serpente saggissimo”. E’ lui che si diverte a manipolare una schiera di disperati, spingendoli al terrorismo in nome di una causa rivoluzionaria nella quale è assai lontano dal credere. Ed è sempre lui a commettere un efferato delitto contro l’infanzia, che in Dostoevskij è sempre la soglia ultima, l’enigma incomprensibile che turba oltre ogni dire.

Eppure, nemmeno nel narratore russo il male lascia indenne chi lo commette: Raskolnikov non regge alla prova, avverte in modo insopportabile il peso della colpa e, toccato dall’amore senza riserve della povera Sonja Marmeladova, confessa tutto alla singolare figura di inquirente-psicologo Porfirij Petrovic; Stavrogin, dopo essere rimasto a lungo freddo di fronte a qualunque crudeltà, finisce con l’impiccarsi (proprio come aveva fatto la sua vittima), perseguitato dalla visione della ragazzina che ha stuprato, quell’inerme eppure insopportabile figura che, chiusa nel mutismo a causa del trauma subito, lo scruta con occhi terribili e lo minaccia con un pugno levato, tanto impotente quanto inquietante,

Alla luce delle vicende di questi due personaggi, il brano ciceroniano di cui ci siamo occupati acquista dunque una luce molto particolare: se da un lato il padre della filosofia romana crede ancora in un mondo ordinato e razionale, in cui il male è comunque spiegabile e sarà sempre punito, appare però capace di intuizioni che lo mettono in comunicazione con uno degli scrittori più sconvolgenti e profondi, con quello che forse meglio di ogni altro ha saputo cogliere il senso drammatico dell’esistere dell’uomo moderno.

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