Storie di passaggi finiti male

Storie di passaggi finiti male

Gli anni ’70 sono passati alla storia per tanti motivi, tra cui non va dimenticata la cosiddetta “rivoluzione sessuale”. Già dalla fine del decennio precedente, infatti, nel mondo occidentale era iniziato un processo di trasformazione della morale pubblica e privata:mentre si parlava di sesso con meno censure che in passato, si abbassò l’età media del primo rapporto,il divorzio divenne pratica abbastanza consueta, e cominciò a diffondersi l’idea che l’eros rappresentasse un valore esperienziale che poco o nulla doveva avere a che vedere con doveri di carattere biologico-culturale quali il matrimonio e la riproduzione. A tale profondo rinnovamento contribuirono vari fattori:l’emancipazione della donna; il benessere economico, mai prima d’allora così largamente diffuso; l’avvento definitivo di quella che Guy Debord ribattezzò la società dello spettacolo, cui contribuirono in larga misura il cinema e la musica pop-rock (si pensi al messaggio sessuale più o meno esplicito contenuto nell’immagine di personaggi come Elvis Presley, Mick Jagger, Jim Morrison).


L’Italia cercò di adeguarsi faticosamente a questi nuovi modelli che provenivano soprattutto dal mondo anglosassone, e si sforzò di apparire, secondo l’efficace definizione del grande e compianto Edmondo Berselli, un paese divenuto disinibito prima ancora di essere evoluto. Ma, nonostante tutto, una caratteristica dominante da noi rimaneva quella che Vitaliano Brancati aveva ribattezzato il gallismo del maschio italiano. Come già nei Vitelloni e nella Dolce vita di felliniana memoria, il sogno dell’uomo italiano continuava ad essere quello di una breve avventura, eccitante e senza conseguenze, con una ragazza (preferibilmente ma non necessariamente straniera), bella e spregiudicata. E quale migliore occasione, per realizzare tale sogno, che dare un passaggio ad un’avvenente autostoppista?
E proprio in uno scenario di questo tipo ci portano due momenti della creatività italiana degli anni ’70, riguardanti il mondo della canzone popolare e quello del cinema destinato al grande pubblico.
Partiamo dunque dal primo. Nel 1973 Claudio Baglioni è un giovane cantautore già di notevole successo, avendo fatto saltare il banco del mercato discografico, un anno prima, con quella che è stata definita (almeno dalle nostre parti), la canzone del secolo, Questo piccolo grande amore. I suoi pezzi, molto diversi da quelli dei colleghi più o meno impegnati, non parlano in modo ermetico di stati d’animo dolenti o di questioni politiche, ma – molto semplicemente – d’amore. Liaisons adolescenziali, brevi quanto può esserlo una vacanza estiva, o storie più impegnative, ma comunque sempre caratterizzate dal topos della separazione, cui il giovane Claudio presta le sue sonorità e i suoi acuti sofferti e malinconici. E’ quanto si può trovare anche in un singolo di successo proprio del maggio ’73, Amore bello (finisce allora tutto qui / tra poco andrai / …un lento, l’ultimo oramai). Ma a interessarci adesso è il lato B di questo 45 giri, W L’Inghilterra, in cui Baglioni dà spazio a una sua vena, minore ma pure degna d’interesse, che potremmo definire più spigliata e divertita.

E’ qui che troviamo la scena cui facevamo riferimento prima. L’io lirico – sostanzialmente coincidente con lo stesso cantante – sta viaggiando sotto un cocente sole estivo a bordo della sua Citroen 2 CV gialla, divenuta in seguito oggetto di culto tra i fans – e che ha persino un nome, Camilla. Ed ecco un’autostoppista inglese, erede della recente tradizione dei globe-trotters anni ’60: E’ carina da morire /…le lenticchie sul nasino un po’ all’insù… / sacco a pelo / scatolette / gira il mondo tutto l’anno / e poi c’ha un’abbronzatura / che ti frega anche un bagnino / io al contrario sembro proprio un latticino.
Nonostante la quantità spropositata di bagagli (quanta roba, porca l’oca, / la Camilla, yes, my car, / qui mi si sbraca) e l’eterno problema degli italiani con le lingue straniere (no, non mastico l’inglese / I don’t speak, / so solo giusto qualche frase), tra i due nasce subito un’intesa che sembra promettere sviluppi interessanti (penso che mi ha preso proprio in simpatia) e che porta anche a un vagheggiamento dell’isola britannica vista come una terra dalla mentalità più aperta e moderna ( viva viva l’Inghilterra / pace donne amore e libertà / viva viva l’Inghilterra / ma perché non sono nato là / ma chissà)
Baglioni non ha certo l’aria della simpatica canaglia alla Belmondo o alla Califano, è più il tipo del bravo ragazzo dolce e timido, ma certe occasioni vanno prese al volo, e allora torna utile tutto il repertorio del latin lover d’assalto (faccio un po’ di mano morta / lascio un po’ le cose al caso / mi avvicino dolcemente / senza darci grande peso… / please mi reggi un attimino tu il volante /… con la scusa le do un bacio sulla guancia / la mia mano sotto la sua camicetta). L’approccio si rivela un sostanziale disastro (lei mi guarda poi non mi sorride più / mi fa segno di fermare / prende tutte le sue cose / quindi un gesto come dire / vacci solo a quel paese), ma il mancato seduttore non se la prende troppo e se la cava con una battuta (ho sbagliato qualche cosa? / forse un pelo d’etichetta / ma non era la regina Elisabetta) che ha un po’ il sapore di quello spirito romanesco che a Baglioni non è del tutto estraneo (come testimoniano Porta Portese e Me so’ magnato er fegato).
Passando ad altro ambito, possiamo iniziare affermando che – nel nostro cinema del dopoguerra – uno dei fenomeni di maggior successo, ma anche più degni di considerazione, fu la commedia all’italiana. Partita come bonaria e divertita ricognizione su ambienti e costumi e tipi umani (l soliti ignoti, Monicelli, 1958), non senza venature sentimentali (Poveri ma belli, Risi, 1956), acquista presto i toni risentiti della denuncia morale (Una vita difficile, Risi, 1961), e si concede perfino finali drammatici (Il sorpasso, Risi, 1962), per poi sfociare nella satira e nel grottesco (Signore e signori, Germi, 1965; Lo scopone scientifico, Comencini, 1972; Amici miei, Monicelli, 1975).
Un capitolo a parte è poi rappresentato dal dittico l mostri (1973) e l nuovi mostri (1977). Prima il solo Risi, poi insieme a lui anche Scola e Monicelli si prodigano per dare nuova linfa alla tipologia del film ad episodi, presentando una galleria di personaggi indimenticabili che contribuiscono a tratteggiare il quadro di un’Italia che si crede furba e spregiudicata, ma che per lo più è solo cinica e meschina. Nelle seconda di queste due pellicole troviamo – con la firma di Mario Monicelli – uno sketch che rappresenta, per così dire, la versione noir della situazione in fin dei conti per nulla drammatica proposta da Baglioni in W L’Inghilterra.

L’episodio da l nuovi mostri – intitolato, è ovvio, Autostop – vede come protagonista Ornella Muti, la giovane attrice italiana più bella e affascinante di quell’epoca (si pensi che due anni dopo Jerry Calà, in Capito? – sigla di Domenica ln – in un elenco di sogni proibiti che vorrebbe veder realizzati, afferma anche “Voglio trascinare Ornella Muti sotto un plaid“). Al fascino del sex-symbol nazionale – qui una ragazza semplice che fa l’autostop su un’assolata strada nel cuore della bassa padana – non può certo restare insensibile l’ottimo attore Eros Pagni, perfetto nell’incarnare un certo tipo di italiano, che si presenta per quello che è fin dai primi fotogrammi: dopo aver tirato dritto, non senza un commento sprezzante, di fronte a una prima autostoppista priva di particolare avvenenza, frena di botto, colpito dalla bellezza della Muti. Prima che la ragazza possa salire a bordo, si affretta a mettere via uno dei più orripilanti gadget dell’automobilista medio anni ’70: uno di quei portafotografie calamitati dai quali i familiari invitano il guidatore a non correre troppo. Non ha modo, però, di far sparire un altro bijou che adorna il cruscotto, la scritta “Piera”, che con ogni probabilità allude al nome della moglie. L’automobilista asserisce però – nei primi frammenti di conversazione – di aver così ribattezzato la sua auto (curiosa, tra l’altro, l’analogia con la canzone di Baglioni, dove pure, ricorderete, la macchina portava un nome di donna). L’uomo però aggiunge che si chiamava Piera una sua segretaria, con la quale (altro particolare di cattivo gusto) fa capire di aver avuto una relazione (“era un po’ più di una segretaria”), forse per dare l’idea di essere uno che ha successo con le donne.
Da questo momento è tutto un susseguirsi di frasi e di comportamenti piuttosto disgustosi: mentre le mani vanno più volte, con vari pretesti, al corpo della ragazza (contraddicendo vistosamente un fare paterno che ha assunto fin dall’inizio), l’individuo dichiara di essere un imprenditore del settore della maglieria, particolarmente attento alle esigenze delle operaie, cui porta il lavoro a casa. “Lavoro nero!”, esclama allora indignata la Muti, ma Pagni respinge l’accusa e si rifugia in uno dei più triti luoghi comuni: “La verità è che manca la voglia di lavorare, specie nei giovani”. I giovani che, continua, dovrebbero fare qualcosa di serio e di utile, anziché andare in giro a “buttare le bombe” (non si dimentichi che siamo negli anni di piombo, e l’automobilista cita infatti N.A.P. e Brigate Rosse ). Per trovare conferma della pessima situazione dell’ordine pubblico, Pagni chiede alla passeggera di leggere a caso una notizia dal giornale che ha con sé. La Muti vede il titolo su un’evasione da un carcere femminile che si trova proprio nella zona in cui stanno transitando, e coglie la palla al balzo:invece di riferire il fatto che le detenute sono state tutte riprese, dice che la più giovane e spietata delle tre, di nome Piera (come lei stessa ha affermato di chiamarsi), è ancora in libertà. Pagni appare subito spaventato, e la ragazza lo minaccia con una pistola che finge di avere nella borsetta. L’attempato vitellone maledice se stesso, mentre la giovane, per spaventarlo ulteriormente, lo obbliga a fare una deviazione su una strada sterrata. La macchina però si ferma e non c’è verso dei farla ripartire: l’uomo appare infatti incapace di rimediare in qualche modo al guasto; deve pensarci così la Muti, risistemando un semplice filo che si era staccato. Ma questo dà il tempo all’automobilista di aprire il cassetto in cui tiene una rivoltella; appare per un attimo preoccupato e incerto sul da farsi, poi però scende, prende la mira, e fa fuoco due volte sulla sedicente Piera, lasciandola stesa al suolo. L’ultimo fotogramma inquadra la borsa della ragazza, da cui è fuoriuscito un  innocuo asciugacapelli; non c’era nessuna pistola, e da uno scherzo è scaturita una tragedia.

In quell’epoca, a turbare gli italiani non c’era solo il terrorismo, nero o rosso, ma anche l’imperversare di una criminalità che mai prima si era mostrata così feroce. Sequestri di persona, rapine, regolamenti di conti erano all’ordine del giorno al Nord non meno che al Sud, e questo clima appare evidente dal fiorire del genere cinematografico del “poliziottesco”, in cui improbabili vendicatori, impersonati da attori come Maurizio Merli, Franco Gasparri o Luc Merenda,combattono la malavita con metodi spicci e mira infallibile. L’epilogo dell’episodio che abbiamo riassunto ben si inserisce in questo contesto, e c’è chi afferma che ad ispirarlo sia stato un noto e drammatico fatto di cronaca: il 18 gennaio 1977 (proprio lo stesso anno del film) il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, entrato con un paio di conoscenti nella gioielleria di un amico dei suoi accompagnatori, ha la malaugurata idea di intimare scherzosamente il classico: “Fermi tutti. Questa è una rapina!”. Il commerciante non ci pensa due volte, impugna la pistola con cui aveva già ferito precedentemente un vero rapinatore e spara. Il ventottenne centrocampista muore mezzora dopo.

Tornando all’argomento da cui siamo partiti, cioè l’intraprendenza arruffona e non di rado sguaiata di certi maschi nostrani, verrebbe voglia di citare il Nino Manfredi del film Anni Ruggenti (Luigi Zampa, 1962), che a un gerarca di provincia (la vicenda è ambientata ai tempi del fascismo) che gli confida il suo incontenibile gallismo, dice: “Questo viziaccio di noi italiani”. Ma, soprattutto, è importante ribadire che, al di là della condanna per i crimini più efferati, purtroppo così frequenti, il rispetto nei confronti della donna deve partire dai piccoli gesti di ogni giorno, e questo articolo vuole anche essere un mio piccolo contributo ad una battaglia di cultura e di civiltà che oggi più che mai è fondamentale combattere.

 

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