Marco Bellocchio

IL VISIONARIO – OMAGGIO A BELLOCCHIO, INDAGATORE DELLO SGUARDO E DELLA MENTE

Bobbio, piccolo centro in provincia di Piacenza, non è famoso solo per la celebre abbazia fondata nell’alto Medio Evo da San Colombano, ma anche per aver dato i natali, il 9 novembre del 1939, a un famoso regista. Si tratta di Marco Bellocchio, che può essere senza alcun dubbio considerato tra i massimi autori italiani della settima arte. Nonostante una produzione vasta e continua nel corso dei decenni, il suo nome è indissolubilmente legato all’esordio folgorante del 1965, “l pugni in tasca”, un violento atto d’accusa contro l’oppressione della famiglia, un ritratto d’interno borghese che culmina in una tragedia della follia.

 

Interpretato da Lou Castel e da Paola Pitagora, è il film di cui l’illustre critico Morandini ha scritto: “Dopo Ossessione di Visconti non c’era mai stato nel cinema italiano un esordio così clamoroso e autorevole. Non c’è più stato nemmeno nei 20 anni seguenti. Bellocchio sfida il grottesco senza cadervi. Duro, crudele, angoscioso.”. La vicenda è quella di un giovane epilettico e paranoico, Alessandro (Lou Castel), che decide di eliminare i propri familiari, tutti più o meno affetti da tare insanabili. Notevole anche il personaggio di Giulia (Paola Pitagora), sorella del protagonista, cui è legata da un relazione incestuosa; il rapporto tra i due è tanto morboso che la giovane poi lascerà morire il fratello, non soccorrendolo durante una delle crisi della malattia cui è soggetto. Emerge già qui il tema della follia, che sarà una costante nelle opere di Bellocchio, al punto che tra gli anni ’80 e ’90 il regista vorrà poi come collaboratore alle sue sceneggiature il noto psichiatra Massimo Fagioli.

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Con un salto di quasi 40 anni, voglio ricordare i lavori più recenti del maestro di Bobbio, che lo hanno visto protagonista di una sorta di rinascita artistica, nel corso della quale è tornato ad affrontare temi di scottante attualità, o aspetti inquietanti e complessi della storia italiana del ‘900. Nel primo ambito si inseriscono “L’ora di religione” (2002, con Sergio Castellitto), e “Bella addormentata” (2012, con un ricco cast nel quale spicca il solito grande Toni Servillo). Entrambe le opere prendono in esame il difficile ruolo che il cattolicesimo è chiamato a svolgere oggi nel nostro paese, di fronte alle moderne esigenze e ai nuovi drammi etici di un mondo in continua trasformazione.
Nel primo film, Ernesto (Castellitto), un artista, si trova a dover affrontare la complessa e imbarazzante vicenda della possibile canonizzazione della madre, uccisa molti anni prima da un altro figlio, Alfredo (Donato Placido), malato di mente e bestemmiatore compulsivo. Contrario a tale prospettiva, Ernesto dovrà confrontarsi – nel corso di 24 ore durante le quali la realtà si mescola ad una dimensione onirica e simbolica – con il clan familiare, capeggiato dalla zia Maria (Piera Degli Esposti), tutt’altro che fervida di spirito religioso, ma allettata, come gli altri parenti, dai possibili vantaggi economici derivanti dall’avere una santa in famiglia.

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“Bella addormentata” è ispirato alla vicenda di Eluana Englaro, la giovane lombarda cui il padre Beppino volle fossero sospese le pratiche mediche che la tenevano artificialmente in vita dopo un incidente avvenuto 17 anni prima e che l’aveva ridotta ad una condizione di coma irreversibile. Trasferita in un centro sanitario di Udine, i cui medici si erano dichiarati disposti a assecondare la volontà del padre (il quale sosteneva, tra l’altro, che in una conversazione su tali questioni, la figlia aveva dichiarato, prima dell’incidente, di essere contraria all’accanimento terapeutico), Eluana si spense il 3 febbraio del 2009, tra violente polemiche che coinvolsero opposti schieramenti dell’opinione pubblica e della politica. Da questo fatto di cronaca Bellocchio ricava un film corale, in cui gli spettatori sono chiamati a conoscere e a cercare di comprendere il dramma umano di vari personaggi, che per un motivo o per l’altro partecipano con particolare intensità emotiva al caso Englaro. Troviamo un onorevole del Pdl (Servillo) e sua figlia (Alba Rohrwacher), un’attrice teatrale circondata da un alone di sacralità (Isabelle Huppert), una giovane drogata stanca della vita (Maya Sansa) e un medico determinato a salvarla (Piergiorgio Bellocchio, figlio dell’autore); nessuno di loro ha torto o ragione in assoluto, ma ognuno porta la sua parte di verità che è tale in quanto vissuta attraverso il dolore.
Il regista si dimostra ancora una volta capace di far convivere le sue due anime, quella del narratore dei fatti e quella che lo porta a trasfigurare in una chiave astratta, ma densa di significati, le tensioni di una vicenda d’attualità.

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Sul versante storico il regista della provincia di Piacenza consegue forse i risultati più alti, prima con “Buongiorno, notte” (2003), una rievocazione dolente e ricca di squarci lirici del caso Moro, in cui spicca la potente interpretazione di Roberto Herlitzka; e poi con “Vincere” (2009), sul dramma umano di Ida Dalser, una delle prime compagne di Mussolini, che al futuro duce del fascismo diede un figlio, per poi essere internata in più di un manicomio, fino alla morte, avvenuta nel 1937. Qui eccezionali sono le prove attoriali dei due protagonisti: Giovanna Mezzogiorno, intensa nel rendere l’ossessione amorosa e il desiderio di giustizia della Dalser (la cui tragedia era rimasta per decenni sconosciuta ed è stata riscoperta solo di recente, grazie al lavoro del giornalista Marco Zeni e a questo film); e un sorprendente Filippo Timi, capace di rendere sia la spavalderia vigliacca di un oscuro agitatore socialista che avrebbe poi preso in mano le redini del paese, sia la tormentata fragilità di Benito Albino, il figlio nato da questa relazione nel 1915 e morto anch’egli nell’ospedale psichiatrico di Milano nel ’42.
Per quanto riguarda la pellicola sul sequestro e l’uccisione dello statista democristiano, diremo innanzi tutto che il titolo scaturisce da una nota lirica di Emiliy Dickinson, mentre per la sceneggiatura Bellocchio si è ispirato al libro della brigatista Anna Laura Braghetti e di Paolo Tavella “Il Prigioniero” (pubblicato da Feltrinelli). Come in altri film, il regista si dimostra in grado di bilanciare la sua tendenza all’intimismo con una puntuale ricostruzione d’epoca che risulta efficace anche grazie alla presenza continua, quasi ossessiva, di inserti televisivi originali.
Maya Sansa interpreta il ruolo di una terrorista che, pur facendo parte a pieno titolo del gruppo dei sequestratori lavora, essendo incensurata, come bibliotecaria. Mentre nasce in lei una simpatia per un giovane del tutto estraneo al mondo della lotta armata (Paolo Briguglia), sembra vacillare la sua determinazione, e decide di liberare l’uomo politico, che se ne va sorridente per le vie di Roma, sorridendo speranzoso alla rinata prospettiva di vita che lo attende.
Fanno da leit-motiv canti e filmati legati alla lotta partigiana, a sottolineare il fatto che, se effettivamente diversi tra i fondatori delle Brigate Rosse erano cresciuti nel mito della Resistenza, quel nobile ideale era stato poi drammaticamente frainteso.

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Della vicenda di Ida Dalser – che aveva già conosciuto nella sua città, Trento, il giovane Mussolini, avendo questi lì lavorato come giornalista sotto la direzione di Cesare Battisti – era trapelato qualcosa negli anni ’50, senza che però il suo calvario riscuotesse una particolare attenzione. Tornata d’attualità, come si è detto, in anni recenti (grazie al libro di Zeni, edito prima da Mondadori, poi da Feltrinelli), la Dalser diventa figura centrale del film di Bellocchio, che non si lascia sfuggire una storia che chiama in causa, ancora una volta, la psicanalisi e, nel caso specifico, il rapporto tra il potere e le masse. Pare che il futuro fondatore del fascismo avesse sposato in chiesa Ida, dopo averla incontrata nuovamente a Milano. La donna, proprietaria di un salone di bellezza, avrebbe anche ceduto la propria attività per finanziare i disegni politici dell’uomo amato. Una volta saputo del matrimonio (civile, in questo caso) con Rachele Guidi, Ida avrebbe cominciato a rivendicare con crescente insistenza i propri diritti di moglie e di madre (Benito Albino era nato nel 1915), guadagnandone, dopo la marcia su Roma, prima una stretta sorveglianza poliziesca, poi, la diagnosi di una malattia mentale da curare in un istituto per alienati. Bellocchio sembra quasi volerci dire che, mentre l’Italia intera stava scivolando nella follia che l’avrebbe portata ad una guerra distruttiva come mai se ne erano viste, il posto di chi, come Ida e suo figlio, diceva la verità, non poteva che essere dietro le sbarre, fra i presunti pazzi

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Voglio concludere ricordando, dagli ultimi film presi in esame, due scene che possono aiutare a comprendere la grandezza visionaria dell’arte di Marco. Nella prima, presa da “Buongiorno, notte”, in un affollato ministero (quello in cui la Sansa svolge la mansione di bibliotecaria), un ascensore si apre, ma nessuno dei molti che lo aspettano ha il coraggio di entrarci, mentre parte “Shine on, you crazy diamond “dei Pink Floyd; dopo pochi secondi anche noi spettatori vediamo quello che ha paralizzato gli impiegati, impedendo loro di varcare quella soglia: è la stella a cinque punte delle B.R., tracciata con uno spray rosso la cui vernice fresca cola ancora lungo la parete, evocando una sinistra scia di sangue. Pochi secondi di pellicola, senza parole, che valgono, più di molti discorsi, a chiarire quanto, in quegli anni e soprattutto in quei giorni, l’Italia intera vivesse in un’atmosfera di angoscia per la sorte di Moro e del paese intero.

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Nell’altra scena, tratta da “Vincere”, vediamo Giovanna Mezzogiorno arrampicarsi, in una notte nevosa, su una gigantesca grata che, da un portico del manicomio,in cui è rinchiusa, lascia passare l’aria senza permettere la fuga dei reclusi; l’obiettivo della donna è lanciare fuori delle lettere che contengono le consuete denunce dell’atroce torto subito; i fogli si adagiano silenziosamente sulla coltre bianca, destinate senz’altro a non essere lette, o a non sortire comunque alcun effetto. Nessuna battuta, nessun commento, perché le immagini dicono più di mille discorsi, per chi sa farle parlare.

 

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