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Balla che non ti passa… Storie di ordinarie umiliazioni, da Bergman a Pietrangeli

A parte il bianco e nero e una certa contiguità temporale, neppure troppo accentuata (il primo è del 1957, il secondo del 1965), “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman e “Io la conoscevo bene” di Antonio  Pietrangeli hanno ben poco in comune. L’opera del maestro svedese ci appare come un grande affresco medievale filtrato attraverso lo sguardo inquieto di un uomo del ‘900 e, nello stesso tempo, propone una riflessione universale su temi come l’ineluttabilità della Morte, il conflitto tra fede e ragione, il valore dell’amicizia e dell’amore. Nel suo terzultimo film, invece, il regista romano (autore anche di altri apprezzabili lavori, quali “Fantasmi a Roma” e “Il magnifico cornuto”), concentra il suo sguardo sull’Italia del tardo boom economico, in cui appare chiaro lo scontro tra chi ha fatto del cinismo il suo habitus mentale e gli illusi che credono alla moderna favola della possibilità di affermazione in quella che Guy Debord chiamerà “la società dello spettacolo”. Il titolo allude, infatti, alla protagonista del film, Adriana (interpretata da un’eccellente Stefania Sandrelli), che approda a Roma dalla provincia nella speranza di sfondare nel cinema, ma che finirà per suicidarsi dopo essere inutilmente passata da un letto all’altro, in cerca di una raccomandazione, o forse di un senso per la sua esistenza.

Ma, al di là di queste nette differenze, voglio brevemente concentrare la mia e la vostra attenzione su due scene che, nei film citati, appaiono legate da un’innegabile somiglianza.

Come è risaputo, il film di Bergman si apre con una sequenza epocale: il cavaliere Antonius Block, tornato dalle crociate deluso, avvilito e ormai incapace di credere in un Dio buono e giusto, si trova davanti la Morte in persona, pronta a ghermirlo. Riesce ad ottenere una dilazione sfidando la crudele entità al gioco degli scacchi (indimenticabile lo scambio di battute tra i due al momento in cui si tira a sorte per decidere chi avrà i pezzi bianchi e chi i neri: “Ti tocca il nero”; dice il guerriero, che si sente rispondere “Si addice alla Morte”).

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La partita non si gioca in un’unica soluzione, e questo effettivamente prolunga il tempo concesso per vivere al cavaliere, nonché allo scudiero Jöns, che lo accompagna. Interrotto il gioco in una situazione di sostanziale parità, il viaggio dei due riprende, ed è scandito da una serie di momenti cupi, caratterizzati in realtà da un unico comune fattore: il terrore che va diffondendosi nella regione scandinava per un’incombente epidemia di peste. In questa situazione drammatica, entrano in scena (è proprio il caso di dirlo) dei nuovi personaggi: sono i componenti di una sparuta compagnia di attori, formata dal vanesio capocomico Skat, dall’ingenuo visionario Jof e da sua moglie, la dolce Mia. La coppia ha anche un bellissimo bambino, di un anno all’incirca, che porta una nota di tenerezza in un mondo nel quale la speranza sembra essere stata bandita. Skat è particolarmente convinto del suo fascino di primattore, e se ne serve per sedurre Lisa, che per lui non esita ad abbandonare il marito, lo stolido fabbro Plog. Questi, disperato, si reca nell’osteria del suo paese per cercare notizie sulla coppia fuggitiva; qui attacca discorso con Jof, che si è concesso una piccola divagazione rispetto ai suoi doveri di padre e di marito. I due cominciano a discutere, e il giovane incita scherzosamente il fabbro a dare a Skat la punizione che ogni attore si merita. Ma quando il maligno Raval – un ex predicatore che aveva convinto, anni prima, sia Block che altri cavalieri a partire per la guerra santa, e che ora si è ridotto a spogliare dei loro miseri beni i cadaveri delle prime vittime dell’epidemia – rivela a tutti i presenti che anche Jof è un saltimbanco, le cose sembrano mettersi male per il buffo ed innocuo personaggio; aizzata dal perfido ex-monaco, la folla costringe il malcapitato a salire su un tavolo e a imitare un orso ammaestrato che balla. Il lato malvagio dell’umanità sembra venir fuori in questo momento: tutti godono nell’assistere all’umiliazione dell’incolpevole attore che, atterrito ed esausto, cade di schianto, incapace di proseguire nella grottesca danza. Altre vessazioni potrebbero sopraggiungere su di lui, se non fosse per l’intervento dello scudiero Jons, che inveisce contro l’odiato Raval e permette a Jof di mettersi in salvo.

Sorprendentemente, ci troviamo di fronte a qualcosa di non dissimile nella pellicola di Pietrangeli. La giovane protagonista è costantemente seguita dalla macchina da presa. La troviamo in ambienti diversi: nelle stazioni ferroviarie, nei locali, in automobile (il nuovo grande simbolo della modernità, come solo pochissimi anni prima aveva efficacemente sottolineato Dino Risi nel “Sorpasso”). Quasi sempre è in compagnia di uomini che le fanno, più o meno regolarmente, delle avances, incitati dalla sua notevole avvenenza; Viene giudicata una ragazza “facile”, per quel suo misto di ingenuità e disinvoltura, e in effetti finisce con una certa regolarità in camera da letto. Ed è proprio nella garçonnière di uno scrittore, affascinante ma non più giovane, che ascoltiamo sulla giovane delle parole indubbiamente efficaci, ma dure fino alla crudeltà: Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana. Per lei ieri e domani non esistono, non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati. Perciò vive minuto per minuto: prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi. Con se stessa, mai”. Queste frasi sono lette dalla stessa Adriana da un appunto che l’uomo ha lasciato sulla sua scrivania, e non ci mette molto a capire che il soggetto è lei. Ne rimane in parte turbata, ed un po’ dispiaciuto appare lo stesso scrittore, che però manifesta subito dopo il desiderio di riprendere le effusioni, alle quali la stessa giovane non si sottrae.

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Ma sono ferite che lasciano il segno, e più tardi Adriana ne riceve un’altra, assai più bruciante. Invitata ad una sorta di ricevimento a casa di un certo Paganelli (il grande Franco Fabrizi, unico – come aveva dimostrato fin dai tempi dei “Vitelloni” girato con Fellini – nel tratteggiare personaggi sgradevoli nel loro squallido cinismo), viene portata ancora una volta in una camera da letto, ma per un motivo diverso dal solito. Paganelli è infatti una sorta di talent-scout che, in cambio di cifre che si aggirano intorno alle 400.000 lire, si impegna a promuovere nel mondo del cinema le tante ragazze che arrivano a Roma in cerca di un ingaggio cinematografico. Si deve quindi girare una specie di provino, per il quale Adriana viene fatta adagiare su un letto ed invitata a pronunciare delle frasi di circostanza. Tempo dopo le viene detto che il filmato sarà inserito in “Orizzonti cinematografici”, un cinegiornale di quelli che ancora, all’epoca, inframmezzavano le varie proiezioni di un film nei cinema. Comprensibilmente eccitata ed orgogliosa, la ragazza si reca nella sala dove ha lavorato come maschera, circondata dalle ex-colleghe, opportunamente preparate all’evento. Ma quando finalmente l’immagine di Adriana appare sullo schermo, l’atroce delusione: lo spregevole Paganelli, o chi per lui, ha trasformato, attraverso il montaggio, l’intervista in una feroce parodia nella quale all’aspirante attrice viene fatta ripetere – a qualunque domanda – la frase “Non lo so, speriamo”, in mezzo all’ilarità del pubblico che diventa sfrenata quando la macchina da presa indugia su un buco nella calza di Adriana. Le maschere che la circondano – probabilmente compiaciute perché avrebbero mal sopportato il successo dell’ex compagna di lavoro – si girano verso di lei forse per infierire con qualche altra battuta, ma non la trovano più. Non è vero che tutto le scivola addosso; di lì a poco, dopo un’ultima notte sfrenata insieme ad un occasionale accompagnatore, si lascia cadere giù dalla terrazza del suo appartamento di periferia, dalla quale spesso l’avevamo vista rivolgere lo sguardo verso il centro di una Roma vicina eppure irraggiungibile. Con questo gesto il film finisce, proprio mentre il giradischi ha appena finito di riprodurre l’ennesimo 45 giri. (1)

Ma è un mondo, quello dell’industria cinematografica, darwinianamente spietato con tutti i più deboli, forse anche per compensare il penoso servilismo che è dovuto a chi si trova invece sulla cresta dell’onda. E così, tornando alla serata di gala in casa di Paganelli, arriviamo alla scena che ci interessa e che permette di confermare il collegamento con il Settimo sigillo bergmaniano. Per rendere attraente l’evento, è stato invitato Roberto (così tutti lo chiamano, ostentando una familiarità, presumibilmente fasulla, che non ha bisogno del cognome), un attore di grande notorietà, oggetto dell’adulazione di tutti i presenti. Il divo, impersonato da Enrico Maria Salerno, non si sforza di nascondere la sua noia e il suo disprezzo nei confronti dei convenuti. Tra essi un certo Baggini (un Ugo Tognazzi qui ai suoi vertici assoluti, nonostante la brevità dell’apparizione), un non più giovane caratterista d’avanspettacolo che diventa presto, a sue spese, l’antidoto contro la noia di Roberto, che – a quanto pare – lo conosce da anni. Il povero Baggini, come tutti del resto nell’ambiente, ha bisogno di lavorare, ma diversamente dalle stelline convenute alla festa (tra cui Adriana, naturalmente), ha ben poche frecce al suo arco. Non la gioventù, non la bellezza e il fascino del gentil sesso, e lo sa, ma spera almeno di ottenere  qualcosa umiliandosi per il divertimento del potente. Così, quando Roberto trova una sponda in Cianfanna (Nino Manfredi), un altro losco figuro del giro che si presta a fingersi un produttore di successo disposto ad offrirgli un ingaggio, Baggini ci mette poco ad accettare di ripetere un suo vecchio numero, l’imitazione del treno ottenuta attraverso i rumori emessi dalle sue suole sapientemente strusciate con movenze da ballerino di tip-tap su un tavolino da salotto, trasformato in palcoscenico per l’occasione. Impossibile non cogliere l’analogia con la scena dell’altro film: non c’è la minaccia della violenza, ma il ricatto cui il povero danseur dei tempi di Wanda Osiris è sottoposto non è meno duro. E come il saltimbanco Jof, anche il guitto Baggini rischia il malore, mentre gli spettatori crudelmente lo incitano ad accelerare sempre di più i suoi movimenti.

Non a caso ho prima citato Darwin e la sua idea della spietata selezione naturale del più forte (o adatto che dir si voglia). L’accostamento tra le due scene cinematografiche mi fa infatti venire in mente Verga e il suo “Ciclo dei Vinti”. Come ben si sa, infatti, il narratore siciliano aveva in mente di analizzare il fenomeno del soccombere dei deboli ad ogni livello sociale. Ma mentre nel primo romanzo della serie, “I Malavoglia”, ciò avveniva tra l’evidente compiacimento dei rozzi compaesani di Aci Trezza, nei capitoli successivi, mai scritti (a parte il “Mastro Don Gesualdo”) la crudele soddisfazione di chi resta a galla, godendosi da spettatore l’annegamento altrui, sarebbe stata celata dal rispetto delle forme (2). Secoli di progresso (questa sembra la sconsolata conclusione che possiamo trarre) dall’oscuro Medio Evo di Bergman alla Roma bene di Pietrangeli, a questo sono serviti: a renderci più compiti, ad indossare una maschera sotto la quale i ben vestiti damerini della società dei consumi conservano la ferocia della bestia di sempre.

NOTE

(1)  Il brano in questione è “Let kiss” eseguito dalla Gudrun Jankis Orkest, un banale motivetto tratto da una danza popolare norvegese che ebbe un inspiegabile successo nelle charts europee nel ’65, l’anno di realizzazione del film.

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(2) A mio avviso, l’opera che rende perfettamente l’idea di quali maschere eleganti possa indossare la ferocia nell’ high society è “L’età dell’innocenza” (1920), della scrittrice americana Edith Wharton. Come possiamo anche vedere nello stupendo film che ne ha ricavato nel 1993 Martin Scorsese, siamo nelle più alte sfere della New York di fine Ottocento. La giovane Ellen (Michelle Pfeiffer), recentemente separatasi dal conte polacco Olenski cui era stata sposata, è rientrata in America dall’Europa. Imparentata con la distinta famiglia dei Welland, viene apparentemente riaccolta nel bel mondo newyorkese, ma in realtà è fatta oggetto di una sottile ma crudele emarginazione, che si manifesta ancor più chiaramente quando si percepisce che un profondo sentimento sta per nascere tra lei e il giovane e brillante Newland Archer (Daniel Day-Lewis), in procinto di sposarsi con May Welland (Wynona Ryder), cugina di Ellen. I due mancati amanti saranno costretti a invecchiare vagheggiando la felicità di cui avrebbero potuto godere e che le convenzioni sociali hanno inesorabilmente frustrato. Notiamo infine che è curioso, ma per nulla casuale, il fatto che nove anni dopo Scorsese abbia girato un altro film ambientato nella “Grande Mela” dell’Ottocento, “Gangs of New York”, perfettamente speculare a “L’età dell’innocenza”. Non i quartieri più raffinati, ma i terribili Five Points, non ricchi imprenditori e raffinati intenditori d’arte, ma criminali pronti a tutto: anche in questo caso, tuttavia, a sopravvivere è il più forte e spietato, secondo quella legge darwiniana che sa assumere molte e impensate sfumature.

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