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Dogali, da Piazza dei Cinquecento a Via del Corso

Chi esce dalla stazione Termini, dopo essere arrivato a Roma in treno, si ritrova in Piazza dei Cinquecento. (1) E probabilmente, preso subito dal traffico e dal caos della capitale, non si chiede affatto perché quel vasto spazio, occupato da tanti mezzi pubblici in sosta, si chiami così. In realtà quei “Cinquecento” erano un po’ meno, 430 per la precisione, ma in ogni caso si tratta di soldati ed ufficiali italiani morti combattendo in Eritrea, a 20 km da Massaua, esattamente 127 anni fa, il 26 gennaio 1887.

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Come si era giunti a questo massacro? La politica coloniale italiana era stata inaugurata due anni prima dal ministro degli Esteri Mancini con l’occupazione di una fascia costiera dell’Eritrea, il cui centro principale era appunto Massaua. I piani del ministro riguardavano soprattutto il Sudan, ma in questa direzione furono subito frustrati dall’Inghilterra. Mancini, dunque si dimise e fu sostituto dal conte di Robilant, sempre nell’ambito del governo guidato da Agostino Depretis. (2)

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Il nuovo ministro, pur non approvando la politica del suo predecessore, decise di ordinare l’avanzata italiana verso l’interno della regione. L’inviato del governo italiano Antonelli avvertì Roma del fatto che i capi abissini, con il celebre Ras Alula (detto “il Garibaldi d’Abissinia”) in testa, stavano reagendo minacciosamente all’iniziativa. Ma di Robilant fece telegrafare al generale Carlo Genè il seguente messaggio: “Noi non abbiamo inquietudini perché fidiamo intieramente in lei e nelle sue truppe”. Altrettanto baldanzosa era stata la sua dichiarazione in parlamento: “… e non conviene certamente attaccare tanta importanza a quattro predoni che possiamo avere tra i piedi in Africa”. Tali parole si ritorsero gravemente contro l’uomo politico quando arrivò la notizia del disastro di Dogali, le cui vittime furono gli uomini di una colonna inviata come rinforzo dal forte di Moncullo a quello di Sahatì, che era stato attaccato il 24 gennaio.

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Sorpresi da Alula a metà strada – a Dogali, appunto – gli uomini comandati dal tenente colonnello De Cristoforis, in nettissima inferiorità numerica, furono annientati dopo una battaglia di 4 ore.
L’eco di questi fatti in Italia fu enorme. Ovunque vi furono manifestazioni, sia da parte del movimento operaio (guidato da Andrea Costa), contrario ad avventure coloniali, sia da parte di chi si faceva sostenitore del nazionalismo patriottico e chiedeva una dura reazione di carattere militare.
Ambientato nel 1887 e dintorni è un importante romanzo del Decadentismo italiano.
“Era il 2 di febbraio, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati”.

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Si tratta, naturalmente, del Piacere dannunziano. Andrea Sperelli, l’esteta per antonomasia, è impegnato nella difficile opera di seduzione di Maria Ferres, l’aristocratica bruna che, alla bellezza e alla finezza intellettuale, affianca un’altra prerogativa che la rende irresistibile agli occhi del protagonista: la castità. Il conte Sperelli, in quel mercoledì così drammatico, si trova assai vicino alla piazza di Monte Citorio; sta infatti assistendo ad un concerto in compagnia della pura Maria, nel Palazzo dei Sabini, nei pressi di Via del Corso. Congedatosi dalla donna che tanto lo attrae, Andrea si imbatte nella donna della sua vita, Elena Muti, con la quale, pochi anni prima, ha avuto una tempestosa relazione conclusasi bruscamente con la partenza della “femme fatale” per motivi ignoti. Ora Elena è da poco ricomparsa a Roma, accompagnata da un ambiguo lord inglese che ha sposato per motivi d’interesse. Il conte d’Ugenta non l’ha mai dimenticata e improvvisamente spera di poterla riconquistare. Accetta così più che volentieri un passaggio sulla carrozza della nuova lady. Con i due ex amanti è l’inseparabile amica di Elena, la principessa di Ferentino, che sarà la prima scendere, al vicino Palazzo Fiano, sempre ad angolo con Via del Corso.

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“Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l’orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d’Africa.
― Per quattrocento bruti, morti brutalmente! ― mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.
― Ma che dite? ― esclamò la Ferentino”.
Colpiscono particolarmente le parole del protagonista dannunziano, e colpirono molto i lettori dell’epoca, scandalizzati dalla durezza sprezzante con cui Sperelli definisce i caduti, esaltati come eroi dalla propaganda nazionalista e compianti dalla sinistra più accesa come figli del popolo,vittime del colonialismo aristocratico e borghese. Lo stesso scrittore fu poi costretto a scusarsi, sottolineando che l’espressione “incriminata” apparteneva al suo personaggio e non era certo da sé condivisa. In realtà va sottolineato che il Conte d’Ugenta è appunto un esteta, indifferente (a patto che si conservi lo status quo che lo favorisce socialmente) alla politica come a cosa bruta, tutto preso com’è dal suo culto dell’arte e dalla realizzazione della propria “vita inimitabile”. Altri “eroi” dannunziani verranno, ed altre prese di posizione del “vate” sulla questione coloniale. Ed altri scrittori racconteranno, anche in tempi molto recenti, la presenza italiana in Abissinia; e non mancherà occasione di parlare di questi autori.

NOTE

(1) A Roma esiste anche un obelisco detto “di Dogali”, essendo stato collocato nel 1887 dall’architetto Francesco Azzurri in memoria dei caduti in Eritrea. Fu poi spostato nel 1925 nei giardini presso le Terme di Diocleziano, lungo l’attuale Viale Luigi Einaudi, comunque non lontano dalla Stazione.

(2) Nelle foto che corredano l’articolo, oltre all’obelisco suddetto, figurano: a) Carlo Felice Nicolis, conte di Robilant, che prima delle dimissioni dalla carica di Ministro degli Esteri, aveva rinnovato la Triplice Alleanza e stabilito accordi con le principali potenze europee a salvaguardia degli interessi italiani nel Mediterraneo; b) il Ras Alula, che nel 1896 prese parte alla ben più sanguinosa battaglia di Adua; c) il riconoscibilissimo “vate” Gabriele D’Annunzio; d) abbiamo infine il Palazzo Fiano, la cui storia sarebbe lunga da raccontare. Basti solo sapere che fu sede, dal ‘400, dei cardinali che facevano capo alla chiesa di San  Lorenzo in Lucina; nel 1568, nel corso di scavi attorno alle fondamenta del palazzo furono trovati i primi resti dell’Ara Pacis di Augusto, mentre più tardi l’edificio giunse nelle mani della famiglia Peretti, cioè il casato di papa Sisto V; nell’800 divenne proprietà dei duchi Ottoboni di Fiano, da cui l’attuale denominazione, anche se già prima della fine del XIX secolo fu acquistato dal ricco commerciante Edoardo Almagià. Aggiungiamo infine che il Palazzo dei Sabini citato nel romanzo dannunziano fu poi demolito, e che il Parlamento ebbe una sede provvisoria tra il 1900 e il 1918, nella vicina Via della Missione, in quanto il Palazzo di Monte Citorio rimase chiuso per un lungo periodo di lavori.

 

 

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