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Le antitesi di Elio Petri, da Vigevano al futuro

1) Sullo sfondo di una provincia padana grigia ma travolta da inaspettato benessere, un maestro elementare sperimenta sulla propria pelle quanto sia amaro essere tagliati fuori dal circuito produttivo. 2) Un pigro romano dai capelli ossigenati si ritrova, quasi controvoglia, a competere con una dinamica ragazza americana in un reality show ante litteram ambientato tra i pezzi forti dell’archeologia dell’Urbe; posta in palio: la vita.

Sono, in estrema sintesi, le trame di due famosi film della prima metà degli anni ’60; e a chi non ne avesse indovinato i titoli e si stesse chiedendo cosa hanno in comune – a parte l’epoca e la nazione in cui furono girati – risponderò con un nome ed un cognome: Elio Petri, ovvero uno dei nostri autori più potenti e visionari, nonché uno dei più ingiustamente dimenticati, come ha sottolineato giusto un anno fa il critico Diego Mondella, che al regista del Maestro di Vigevano e della Decima vittima (questi i titoli delle pellicole prese in considerazione in apertura) ha dedicato una monografia edita dalla casa editrice Pendragon.

Romano, nato il 29 gennaio 1929, Petri è innanzi tutto, prima ancora di essere uscito dall’adolescenza, giornalista  ed appassionato di cinema. Conosce Giuseppe De Santis e lo aiuta nel lavoro preparatorio per Roma ore 11 (con Lucia Bosè, che ricordavamo proprio ieri).

Lucia Bose & Raf Vallone - Roma ore 11

Dopo una decina d’anni di assidua frequentazione degli ambienti intellettuali e progressisti della capitale, Elio è maturo per esordire alla regia. Ha solo 32 anni, e piazza, uno dopo l’altro due lavori degni di stima e di attenzione: L’assassino (1961) e I giorni contati (1962), rispettivamente con Marcello Mastroianni e Salvo Randone.

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È stato detto che i due temi fondamentali del cinema di Petri sono la nevrosi e il potere. Partiamo dunque da questi due elementi per presentare, sia pur in modo sintetico, i due lavori su cui intendo soffermarmi. Il maestro di Vigevano, tratto dall’importante romanzo di Lucio Mastronardi, è del 1963, cioè viene un anno dopo Il sorpasso. Cito il capolavoro di Risi perché sia questo che il film di cui sto per parlare fotografano l’Italia del boom economico, vista però da angolazioni diverse. Il Bel paese vacanziero, godereccio e un po’ cialtrone dei Bruno Cortona da una parte; la pianura padana cocciuta e un po’ meschina degli scarpari vigevanesi dall’altra. Se il personaggio interpretato da Gassman cerca, gigioneggiando da par suo, di agganciare il treno in corsa inserendosi nell’orbita dei grandi ricchi che possono permettersi di fare il bagno la mattina a Castiglioncello e di arrivare in yacht a Portofino per un pranzo a base di trenette al pesto, il maestro Antonio Mombelli (cui Alberto Sordi presta una delle sue maschere più umane e dolenti) è combattuto tra la sua presunta dignità di educatore e le aspirazioni della moglie a una vita più gratificante.

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Non può quindi essere che un personaggio nevrotico, pirandelliano quasi nel suo desiderare ardentemente, dopo aver dato le dimissioni per tentare l’avventura imprenditoriale, un ritorno al ruolo di insegnante (peraltro realizzato mediante il superamento di un nuovo concorso, vinto grazie alle risposte esatte sulle immancabili domande riguardo D’Annunzio). Nell’universo chiuso e opprimente creato da Mastronardi (e da Petri stesso, Age e Scarpelli come sceneggiatori), il potere è naturalmente rappresentato dal denaro, di cui dispone una genia di industriali intriganti, ignoranti e villani (tra i quali spicca il commendator Bugatti, che pretende voti più alti per il figlio in cambio di un prestito/regalo di 50000 lire); e dalla burocrazia, impersonata dall’opprimente ed imbecille “dottor professor direttore ispettore” Pereghi, eternamente incombente con la sua prosopopea sul povero maestro. Ancora qualche spinta sul pedale del grottesco, e saremo già dalle parti del Fantozzi della premiata ditta Villaggio-Salce.

Per realizzare il suo quarto lungometraggio – cambiando completamente atmosfere – il regista ricorre ad un romanzo dell’autore di fantascienza Robert Sheckley, sceneggiato con Ennio Flaiano, Tonino Guerra e Giorgio Salvioni. Come ho già accennato, siamo in un imprecisato futuro in cui il Potere, questa volta con l’iniziale maiuscola, permette ai singoli individui di sfogare, in modo legale e persino redditizio, gli istinti violenti. La televisione diffonde slogan come: “Vivete pericolosamente, ma nella legge” e “Contro il pericolo di guerre di massa, iscrivetevi alla Grande Caccia“. Ed un altro ancora, che dimostra come per le nevrosi ci sarà sempre più spazio nel futuro, visto che la trasmissione tv basata sul letteralmente sul detto Mors tua vita mea, chiama a raccolta anche quanti si sentono votati all’autodistruzione: “Suicidi, nella Grande Caccia c’è posto anche per voi”.

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Una nuova e avvincente puntata della Grande Caccia, il delirante e seguitissimo reality show che promette un milione di dollari (ancora il potere del denaro) al vincitore finale, vedrà contrapposti due campioni molto diversi: un Marcello Mastroianni ossessionato dalle donne (la moglie che rifiuta la separazione e l’amante che vuole affrettare il matrimonio) contro una Ursula Andress determinata ad eliminare l’ultimo avversario che la separa dall’ambita somma.

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Il finale sarà rocambolesco e spiazzante: divenuti a loro volta prede delle due donne di Marcello coalizzatesi tra di loro, Ursula e il suo biondo antagonista fuggiranno insieme, avendo scoperto l’attrazione reciproca. Non uno dei migliori film di Petri, d’accordo, ma comunque un curioso oggetto d’epoca, ricco peraltro di intuizioni assai efficaci. Del resto il regista non aveva scoperto ancora il formidabile attore che sarebbe rimasto come icona di quel cinema impegnato e  indimenticabile che avrebbe saputo consegnare alla storia, grazie anche alla collaborazione di Ugo Pirro come sceneggiatore.

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Si tratta di Gian Maria Volontè, naturalmente, sconcertante per la sua bravura in film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in Paradiso. Più che un articolo, meriterebbe una serie di volumi. O per lo meno qualche riflessione veramente meditata e analitica, che forse un giorno o l’altro riuscirò a proporre.

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