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L’importanza di chiamarsi Federico

Esattamente 94 anni fa nasceva a Rimini Federico Fellini. Cosa si potrebbe dire per celebrare un artista così straordinario, che ha contribuito ad alimentare il nostro immaginario con una successione di film sui quali il giudizio può non essere univoco, ma cui nessuno può negare il merito di aver saputo cogliere frammenti della nostra realtà, vissuta o sognata, rielaborandola in una chiave del tutto originale? Mi limiterò a proporre due scene che mi sono particolarmente care, tratte da altrettante opere assai vicine l’una all’altra dal punto di vista cronologico.

Lo Sceicco bianco (1952)

Siamo negli anni ’50, e Federico ha già firmato con Lo sceicco bianco (con Alberto Sordi) il suo vero esordio, proponendo una grottesca satira del mondo dello spettacolo (il fotoromanzo, nel caso specifico) come fabbrica dei sogni capace di attrarre e deludere chi si lascia abbagliare dal luccichio fasullo di un volgare vetro spacciato per cristallo. Ha così acquisito la maturità per quello che sarà il suo primo grande affresco autobiografico, I Vitelloni. Questo termine, divenuto proverbiale, si riferisce a cinque amici che trascinano stancamente la loro esistenza, già votata al fallimento nonostante la giovane età, sullo sfondo di un paese affacciato sul mare, nel quale non è difficile riconoscere la Rimini così cara al regista. Solo uno di loro, il più giovane e sensibile, Moraldo (interpretato da Franco Interlenghi) avrà il coraggio di salire su un treno diretto a Roma, senza saper bene cosa fare all’arrivo, ma deciso a sfuggire ad un’atmosfera che può avvelenare con la sua molle dolcezza. Possiamo pensare a Moraldo come al futuro Marcello Rubini della Dolce vita; e dietro entrambi i personaggi c’è, naturalmente, Federico stesso.

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Da questo film scelgo un momento particolarmente malinconico e grottesco: è Carnevale, e il solito gruppo di amici prende parte ad un veglione nel teatro della cittadina. La festa impazza, ma forse nessuno si diverte davvero, per quanto tutti facciano quasi a gara per stordirsi tra la musica, le danze frenetiche e il turbinio dei coriandoli e delle stelle filanti. Più passa il tempo e più emerge l’insensatezza del raduno e dei travestimenti. Ma il più triste di tutti è Alberto (sempre Sordi), un uomo più che un ragazzo, che però si lascia mantenere dalla madre e dalla sorella. Quest’ultima, peraltro, ha una relazione con un uomo sposato, con il quale medita di partire. Le amarezze di Alberto emergono tutte quando ormai è l’alba: ubriaco, si rende conto di quanto fallimentare sia la sua vita, ma il suo sguardo perso e dolente mentre esce dal teatro, amorevolmente accompagnato da Moraldo, denuncia tutta la sua incapacità di reagire, e nell’insieme la scena rappresenta una delle prove più alte dell’espressività dell’attore romano.

Due anni dopo arriva un film che alcuni critici non stimano particolarmente (fu, tra l’altro, poco apprezzato a Venezia), ma che io personalmente amo molto (e non sono certo l’unico). È Il bidone, con l’attore americano Broderick Crawford nel ruolo del protagonista. Il titolo allude alla truffa, al raggiro, l’arte praticata da Augusto – il personaggio principale – e dal suo gruppo di colleghi. L’uomo ormai non è più giovane, e si rende conto che la sua vita è stata un fallimento. Tra l’altro ha una figlia, un’ingenua studentessa che non vede quasi mai e che nulla sa dei loschi traffici del padre. Un incontro casuale spinge Augusto a desiderare un nuovo e più intenso rapporto con la ragazza, ma in un cinema dove i due sono andati sperando di poter trascorrere un pomeriggio sereno, l’attempato truffatore viene riconosciuto e insultato da una delle sue vittime, perdendo così completamente la faccia davanti alla giovane. Nel finale del film, dopo un’inganno particolarmente odioso ai danni di poveri contadini con una figlia storpia, Augusto, che era parso disgustato del colpo da attuare, cerca di raggirare anche i suoi complici i quali, dopo averlo malmenato, lo abbandonano morente sul ciglio di una strada.

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Anche in questa pellicola spicca una straordinaria scena collettiva, dalla quale ancora emerge un fondo di amarezza e di mancanza di senso, aggravato dal cinismo dei personaggi che la affollano, ben più laidi rispetto ai bonari e innocui vitelloni di provincia. Augusto e i suoi due compari – l’ingenuo Picasso (Richard Baseheart), così chiamato per le velleità artistiche, e l’ambiguo Roberto (l’immancabile Aldo Fabrizi, specializzato in questi ruoli)  – vengono invitati a festeggiare l’arrivo del nuovo anno a casa di un “bidonista” di successo, un personaggio che per loro rappresenta un mito, un sogno irrealizzabile più che un esempio da imitare. Anche qui, tra volgarità, chiasso, scenate e tentativi di seduzione, arriviamo all’epilogo drammatico. Protagonista è Roberto, che approfitta della confusione per rubare un portasigarette d’oro. Ma, identificato, come un “gratta”, cioè un volgare ladro, verrà smascherato dal padrone di casa, che non nasconde il suo disprezzo per l’incauto ospite e per Augusto, che l’ha portato con sé. Picasso, che ha con sé la moglie, ignara fino a quel momento del “giro” frequentato dal marito, coglie l’occasione per tagliare i ponti con l’ambiente della truffa. Per Augusto sappiamo già come finirà.

Un Fellini amaro, dunque, come poi tornerà ad essere in alcune occasioni, pur nell’ampiezza della gamma di sfumature che ne hanno fatto un maestro inimitabile, chiuso in un suo mondo di fantasie e insieme indagatore della realtà curioso e attento come pochi altri.

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