Don Giovanni (6) (Losey)

Losey e Satta Flores, maestri del cinema

La data del 14 gennaio ci offre l’opportunità di ricordare due personaggi della storia del cinema, diversi sotto molti aspetti ma ugualmente degni di essere ricordati dagli appassionati della settima arte.


Joseph Losey nacque nel Wisconsin, nel 1909. Dopo un lungo apprendistato nel mondo del teatro e come documentarista, girò in patria diversi film, tra i quali spicca la pellicola d’esordio, Il ragazzo dai capelli verdi (1948), definita da Paolo Mereghetti una “favola contro la discriminazione razziale e, al contempo, un film per la pace”, dal momento che nella mutazione del giovane protagonista, che un giorno si risveglia con un’anomala capigliatura verde, è possibile rinvenire un effetto della radioattività, elemento assai significativo a soli tre anni dalla tragedia di Hiroshima.
A partire dall’inizio degli anni ’50, il regista, entrato nel mirino della Commissione per le attività antiamericane, preferì trasferirsi in Inghilterra. L’isola britannica si rivela particolarmente congeniale all’attitudine analitica e stilistica di Losey, la cui consacrazione definitiva arriva nel 1963 con Il servo, memorabile indagine sui rapporti di classe che continuano a sussistere in un clima sociale reso torbido dalla decadenza della nobiltà e dalla corruzione del popolo. Contribuiscono alla riuscita dell’opera due importanti fattori: la prestigiosa sceneggiatura di Harold Pinter, e l’eccelsa prova attoriale di Dirk Bogarde, perfetto nel ruolo del perfido ed insinuante cameriere Barrett.

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La collaborazione tra Losey e Pinter continua felicemente con Messaggero d’amore, del 1971, ambientato nell’età vittoriana, sul cui sfondo, insieme raffinato ed ipocrita, si colloca l’educazione sentimentale di un ragazzo che si trova casualmente coinvolto in una relazione alla D.H. Lawrence tra una gentildonna (Julie Christie) e un aitante fattore (Alan Bates). L’indubbio valore dell’opera fu sancito dall’attribuzione della Palma d’oro al Festival di Cannes. Impossibile, infine, concludere una ricognizione, per quanto sommaria, della filmografia del maestro inglese (sia pure d’adozione) senza citare il Don Giovanni del 1979, sontuosa trasposizione cinematografica del dramma giocoso di Mozart e Da Ponte. Indimenticabile, oltre all’interpretazione di Ruggero Raimondi, l’ambientazione lagunare veneta, che conferisce concretezza geografica e spaziale ad un testo dal quale emerge, potente ed insopprimibile, la dimensione tragica ed individualistica del protagonista.

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Su versanti decisamente diversi si articola invece la carriera, purtroppo breve ma comunque intensa, di Stefano Satta Flores. Nato a Napoli nel 1937, l’attore fu uno degli interpreti più originali della commedia all’italiana, in un momento in cui questo fortunato genere del nostro cinema inclinava verso sfumature particolarmente tragiche e grottesche. Lo troviamo infatti, già nel 1966, nel cast di Signore e signori di Pietro Germi, una delle prime opere in cui lo sguardo degli autori italiani si fa impietoso e quasi feroce nei confronti dei vizi ammantati di perbenismo della ricca borghesia di provincia del periodo immediatamente successivo al boom economico. Se molti sono stati i registi importanti che hanno saputo apprezzare le indubbie qualità dell’attore partenopeo, dalla Wertmüller a Eriprando Visconti, passando per Dario Argento e Giuliano Montaldo, non si può non riconoscere che l’autore che meglio ha saputo valorizzare Satta Flores è stato Ettore Scola, regalandogli in particolare il ruolo più significativo della sua carriera, quello di Nicola in C’eravamo tanto amati. È un film, questo, tra i più apprezzati in assoluto dal pubblico italiano, e molte sono le scene che restano scolpite nella memoria: la grottesca conclusione del dibattito su Ladri di biciclette al cineforum di Nocera Inferiore; la fallimentare partecipazione dell’ex professore a Lascia o raddoppia; la conferenza di Vittorio De Sica in un gremito palasport, al termine della quale lo stesso Nicola non trova il coraggio di avvicinare il suo idolo; la rissa tra Antonio (Nino Manfredi) e uno dei tanti corteggiatori di Luciana (Stefania Sandrelli), ai margini della piazza di Fontana di Trevi, dove Fellini, accompagnato dall’inseparabile Marcello Mastoianni sta girando la più celebre scena della Dolce vita (1960). Se ci si fa caso, sono quasi tutte scene in cui è protagonista quello che, tra il gruppo di amici, sembra essere il meno importante, Nicola appunto, una sorta di parodia del dostoevskijano uomo del sottosuolo, un parolaio vanamente aggressivo e votato a un fallimento del quale sembra quasi masochisticamente compiacersi. Personaggio significativo, dunque, perché uno degli obiettivi di Ettore Scola è indubbiamente la denuncia dei limiti degli intellettuali italiani, narcisisti e incapaci di incidere veramente sulla società in cui vivono, ma soprattutto retorici, come emerge proprio dalla risposta di Nicola all’ultima domanda che Mike Bongiorno gli pone: quando arriva il momento di essere concreto e di afferrare la possibilità di svolta che la sorte gli offre, Nicola si perde in chiacchere, per far vedere quanto conosce bene la storia del cinema e tutti i risvolti legati alla lavorazione del capolavoro del neorealismo, senza riflettere che mai in un quiz televisivo potrebbe avere senso una risposta così articolata e complessa come quella che lui ritiene essere giusta e che consisterebbe nel racconto dell’aneddoto delle cicche messe apposta da De Sica nelle tasche del piccolo Enzo Staiola, il bambino di Ladri di Biciclette.

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Pochi anni dopo aver preso parte ad un’altra importante opera di Scola, La terrazza, Stefano ci ha lasciato in seguito ad una grave malattia, a soli 48 anni. Troppo presto, certo; ma con la sua bravura e con la sua profonda umanità ha saputo lasciare un segno molto importante nel cuore degli amanti del cinema. E, in conclusione, non sarà forse assurdo affermare che, per quanto separati da molte differenze, Joseph Losey e Stefano Satta Flores possono trovare un punto di contatto nella comune predisposizione alla critica sociale. Il primo ha saputo più volte far emergere la sottile perfidia che si nasconde tra le pieghe dell’inappuntabile correttezza formale che accompagna i rapporti umani nel mondo anglosassone; il secondo è stato tra gli attori italiani più capaci di denunciare le inadeguatezze intellettuali e psicologiche dell’italiano medio, che hanno contribuito, insieme ad altri fattori, al patologico ritardo del nostro paese rispetto all’Occidente più avanzato.

 

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