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Franco Fabrizi, l’italiano vanesio

Antonioni, Fellini, Visconti, Comencini, Risi, Ferreri, Zampa, Germi, Lizzani: sono solo alcuni dei grandi registi che, nell’arco di quarant’anni, hanno voluto nel cast di loro film Franco Fabrizi, uno dei più illustri e abili comprimari della storia del cinema italiano del dopoguerra. Era nato a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, il 15 febbraio 1950.

In piena sintonia con il carattere un po’ fatuo e insincero del personaggio che era solito interpretare sul grande schermo, prese presto l’abitudine di calarsi l’età di ben dieci anni. Di bella presenza, amante dei vestiti di buon taglio, aveva fatto i più vari mestieri: indossatore, attore di fotoromanzo, figurante nel teatro di rivista, e persino sotto le armi, in divisa, aveva fatto la sua bella figura. Nel 1953 era stato Oreste Palella, regista di modeste pellicole di stampo popolare, a farlo recitare con un’improbabile parrucca bionda in Cristo è passato sull’aia, nei panni di un contadino, ruolo in verità poco adatto al suo “physique”. Palella probabilmente non aveva azzeccato la parte per Fabrizi, ma fece per lui e per la sua carriera, qualcosa di decisivo: lo segnalò all’amico Federico Fellini, che stava effettuando dei provini per uno dei suoi primi grandi film, I vitelloni. Le audizioni si tenevano a Roma, in via degli Avignonesi, presso il Teatro degli Indipendenti. Franco, che dell’uomo di campagna non aveva la struttura fisica ma certo la furbizia, trovò il modo di arrampicarsi, da un bagno, ad una finestrina che dava sul palco dove gli aspiranti attori si esibivano. Potè così capire al meglio cosa Federico chiedeva per la parte di Fausto, si disimpegnò al meglio, ed il lavoro fu suo.

Del resto, quella parte non avrebbe potuto trovare miglior interprete: un trentenne “principe dei vitelloni” che è costretto a sposare la ragazza che ha messo incinta, ma di mettere la testa a posto non ne vuole sapere. Bivacca per giornate intere al bar, circondato da amici inconcludenti che pendono dalle sue labbra, credendolo un grande seduttore degno di essere imitato. Quando poi gli viene trovato un lavoro, si comporta nel peggiore dei modi: insidia la non più giovane moglie del suo datore di lavoro, un commerciante di oggetti sacri. Quando costei reagisce indignata, viene licenziato, ed allora pensa bene di rubare dal negozio la statua di un angelo, per venderla in giro per le campagne e ricavarne una concreta buonuscita. Finirà nel più umiliante dei modi, con i carabinieri presto sulle tracce del ladro improvvisato, a stento convinti dal suocero dell’uomo ad archiviare il caso, con la promessa del giusto risarcimento a favore del derubato. Solo quando avrà passato una notte d’inferno alla ricerca della giovane moglie – fuggita di casa in seguito alle continue mascalzonate dell’uomo che ha sposato – Fausto sembra (il verbo è d’obbligo) finalmente pentirsi. Ma possiamo certo dire che è proprio per allontanarsi da personaggi come lui e da un ambiente di totale squallore ed inettitudine, che il giovane Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi, prende all’improvviso un treno per Roma, verso un futuro incerto ma comunque diverso, nello struggente finale del film.

Tante altre saranno le storie da raccontare riguardo i film interpretati da Fabrizi: mi limiterò a ricordare brevemente Un maledetto imbroglio, di Pietro Germi, del 1959. Qui, nell’adattamento cinematografico di un capolavoro letterario come Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda, l’attore emiliano impersona il dottor Valdarena, un giovane medico della vittima dell’omicidio, la signora Liliana Balducci, abituato a vivere lussuosamente sfruttando la generosità della ricca parente. Quando si arriva ad appurare che Valdarena è stato il primo a scoprire il cadavere di Liliana, ma che per prima cosa si è preoccupato di appropriarsi della busta con la consueta somma a lui destinata, scavalcando il corpo della defunta devastato dalle coltellate, il commissario Ingravallo – Pietro Germi stesso – lo schiaffeggia ripetutamente e con forza. Un gesto che sintetizza un estremo disprezzo, che sembra quasi assommare tutto il disgusto che i registi hanno sempre voluto far nascere nello spettatore, assegnandoli parti di questo tipo. Nella realtà, Fabrizi era un uomo molto diverso, buono e gentile a detta di chi l’ha conosciuto, ma il suo destino nel mondo del cinema è stato – come ha argutamente fatto notare Geminello Alvi – quello di prestare il suo volto a personaggi persi dietro “vani desideri”, gli stessi di cui parla l’Ariosto in uno degli episodi più suggestivi e simbolici episodi dell’Orlando Furioso, la salita di Astolfo sulla luna, nel mondo degli oggetti e delle passioni perdute.

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