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Il folle, magico mondo di Tex Avery

Il mondo dei cartoni animati è straordinariamente vario, vitale, indipendente e persino tendenzialmente anarchico, perché un disegnatore è libero rispetto alle leggi della natura e della fisiologia: può far cadere i suoi personaggi da decine di metri senza che essi ne riportino danni troppo gravi; può far esplodere loro una bomba in mano, lasciandoli tutti bruciacchiati ma inequivocabilmente vivi; e nulla vieta che, quando vedono una creatura per la quale provano repentinamente il cosiddetto “colpo di fulmine”, i loro occhi escano letteralmente dalle orbite e il loro cuore schizzi davvero fuori dal petto, pulsando ritmicamente a significare l’avvenuto, ineluttabile innamoramento.

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Perché “in a cartoon you can do anything”, come amava ripetere Frederick Bean Avery, nato a Taylor, nel Texas (da qui il soprannome “Tex”) il 26 febbraio del 1908, indiscutibilmente uno dei più famosi creatori di cartoni animati della storia, a detta di molti il più grande. Trasferitosi a Hollywood negli anni ’20, aveva affrontato una dura gavetta prima di essere assunto dalla Universal, presso la quale comunque viene adibito a mansioni alquanto umili. Passa allora alla Warner Bros., e qui il decollo: il boss del settore dell’animazione, Leon Schlesinger, lo mette a capo di un gruppo di giovanissimi disegnatori (Tex, all’epoca ancora chiamato Fred, è il più vecchio con i suoi 27 anni), tutti un po’ pazzi e “irregolari”. Tra loro c’è pure quel Friz Freleng, destinato a diventare famoso per aver dato vita a Gatto Silvestro e a Speedy Gonzalez.

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Chiusi in una baracca infestata dalle termiti, i giovanotti lavorano freneticamente a sovvertire le regole dei cartoons: e allora ecco che nascono Duffy Duck, Bugs Bunny, Egghead (un maialino antropomorfo da noi conosciuto come Taddeo), che ne combinano di tutti i colori, interagendo con immaginari spettatori con i quali litigano, finendo non di rado per far ricorso alle armi da fuoco.

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Perché è proprio questa la caratteristica su cui Avery punta per differenziare le proprie produzioni rispetto all’edulcorato mondo Disney: la cattiveria, il cinismo, persino una certa dose di erotismo, che emerge particolarmente nel personaggio del Lupo Cattivo, un erotomane perennemente attratto da bellone con il fisico da pin-up – chiare antesignane di Jessica Rabbit – o da una versione sexy di Cappuccetto Rosso, per poi rischiare di cadere preda delle voglie di vecchie che hanno perso i freni inibitori. Questo Lupo si presta anche, nel 1942, ad una parodia dell’odiato “signore tedesco coi baffi” (per citare il Woody Allen della “Maledizione dello scorpione di giada”), Adolf Hitler naturalmente. Una chiara operazione propagandistica, esilarante per il pubblico fin dalla didascalia iniziale: “tutte le somiglianze tra il protagonista e quella canaglia di Hitler sono assolutamente volute”.

Gli anni della massima creatività di Avery durarono fino ai primi Fifties: poi le restrittive leggi anti-trust, che ridurranno i finanziamenti, e il diffondersi di uno spirito bacchettone conforme al moralismo dell’America maccartista, spingeranno il geniale cartoonist a lavorare prevalentemente per la televisione e per la pubblicità. Ma ormai il più era stato fatto, e gli “eroi di cartone” avrebbero sempre portato con sé un po’ della follia di questo texano che da ragazzo, in California, si era adattato a scaricare cassette di frutta e a dormire all’aperto, pur di continuare a coltivare il proprio sogno: far ridere il mondo fino alle lacrime.

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