Busby_Babes (1)

Quel sogno dei ragazzi in maglia rossa

Dolorosa è sempre, la morte, chiunque colpisca e in qualunque circostanza. Ma è impossibile non rimanere particolarmente colpiti quando ad andarsene tragicamente è un gruppo di giovani atleti, all’apice della loro parabola umana e sportiva.

È quanto sperimentarono gli italiani alla fine degli anni ’40, in occasione del disastro aereo che annientò il Torino di Valentino Mazzola, una delle compagini in assoluto più forti del nostro calcio. Ed una tragedia analoga si ebbe di nuovo quasi dieci anni dopo, il 6 febbraio 1958, quando un altro incidente aereo costò la vita a ben otto calciatori del Manchester United, in un momento in cui i “red devils” sembravano proiettati verso i più alti traguardi europei. Li chiamavano i “Busby Babes”, per la giovane età media della squadra e in riferimento a Matt Busby, il grande manager scozzese che è entrato nel mito della società che ha il suo quartier generale all’Old Trafford, il “teatro dei sogni”. Importante era stato però anche il ruolo svolto da Jimmy Murphy, il responsabile del settore giovanile dello United, che era stato in grado di selezionare un gruppo di ragazzi dalle notevoli capacità tecniche ed agonistiche. Era nato così questo grande team, vittorioso nella prima divisione inglese per due stagioni di seguito, nel 1955-1956 e nel 1956-1957. I tempi sembravano maturi per affrontare con grandi speranze la Coppa dei Campioni, il torneo europeo per clubs la cui prima edizione era stata disputata nel 1955-56. L’anno dopo i ragazzi di Busby erano arrivati in semifinale, ma non erano riusciti a superare il leggendario Real Madrid del presidente Bernabeu e di Di Stefano. Il gruppo era però determinato a fare meglio, in vista della finale del 1958, che si sarebbe disputata a Bruxelles. Il visto per l’accesso alla semifinale i “babes” se lo erano appena guadagnato a Belgrado, contro la Stella Rossa, in un match terminato 3-3 (risultato sufficiente, visto il 2-1 dell’andata). Si trattava di fare ritorno in patria, a bordo di un Airspeed Ambassador noleggiato per l’occasione. I passeggeri erano in tutto 44, la squadra più alcuni giornalisti e tifosi. Tutto bene finché non si fa scalo a Monaco di Baviera, per un rifornimento di carburante. Il dramma avviene al momento del tentato decollo. Siamo nel primo pomeriggio: il comandante prova per due volte a far librare nell’aria il velivolo, senza riuscirci per via di un surriscaldamento al motore sinistro. Al terzo tentativo si prova a sfruttare un tratto di pista più lungo, ma un sottile strato di neve determinò la catastrofe; l’aereo, non riuscendo a guadagnare una velocità sufficiente, mancò ancora il decollo, ma questa volta si schiantò a 194 km/h contro la rete di recinzione prima, poi contro un edificio. Il fuoco ed un’esplosione fecero il resto. 23 furono in totale le vittime, 8 – come si è detto – i giocatori. I loro nomi (Geoff Bent, Roger Byrne, Eddie Colman, Duncan Edwards, Mark Jones, David Pegg, Tommy Taylor, Liam ‘Billy’ Whelan) non sono molto noti; probabilmente lo sarebbero diventati se un destino crudele non avesse deciso diversamente. Duncan Edwards, in particolare, aveva tutte le carte in regola per affermarsi come un vero campione. Ma non ha potuto farlo…
Lo stesso Busby rimase gravemente ferito, e la guida tecnica del team passò temporaneamente a Murphy. Tra i sopravvissuti, un ventenne di nome Bobby Charlton. Nel 1966 sarebbe diventato campione del mondo con la nazionale inglese; ed anche in onore dei suoi compagni scomparsi portò a Manchester quella tanto sospirata Coppa dei Campioni, nel 1968. Era l’anno della contestazione, dei disordini nelle università di mezzo mondo; un’atmosfera elettrica regnava ovunque, le speranze e le utopie sembravano improvvisamente facili da realizzare per quei giovani dai capelli lunghi ormai incapaci si sottostare alle regole del passato: tra le file dei “red devils” ce n’era uno, di questi pazzi ribelli che credevano nel talento e nella forza dei sogni. Aveva 22 anni e veniva da Belfast: si chiamava George Best.

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