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Cardinali e buffoni nella Ferrara del Rinascimento

È assai nota la battuta pronunciata da Orson Welles – nelle vesti di Harry Lime – in uno dei più memorabili film da lui interpretati, “Il terzo uomo”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cosa hanno prodotto? Gli orologi a cucù.”. Frase ad effetto, rispetto alla quale non esito a prendere le distanze per quanto riguarda l’atteggiamento irrisorio nei confronti del popolo svizzero, ma che mi torna assai utile oggi, 20 marzo, giorno in cui ricorre l’anniversario della nascita (il 535^, per la precisione) del cardinale Ippolito d’ Este, il famoso (e poco generoso) mecenate di Ludovico Ariosto, che gli dedicò il suo “Orlando Furioso”.

Tornando alle parole di Lime/Welles, va detto che, tanto per cominciare, nella storia di Ippolito, vescovo ad otto anni, quei Borgia che sembrano aver lasciato il segno sul nostro Rinascimento c’entrano abbastanza. Infatti, la celeberrima Lucrezia, figlia del papa Alessandro VI, era convolata a nozze con il fratello del cardinale (Ippolito era arrivato alla porpora già nel 1493), il duca Alfonso I. La dama, famosa per la sua avvenenza ma infangata da dicerie infamanti (tanto che Alfonso era riluttante, ma dovette cedere alle pressioni dell’illustre suocero), aveva portato con sé, come dama di compagnia, la cugina Angela. Anche costei doveva essere dotata di un discreto fascino, perché per lei entrarono in contesa lo stesso Ippolito (in fatto di moralità del clero i tempi erano quelli che erano) e il fratellastro di questi, Giulio, figlio illegittimo di Ercole d’Este, allevato a corte e rinomato per la sua prestanza fisica e per la delicatezza dei lineamenti. Prevedibilmente, la giovane Borgia non perse troppo tempo a decidere chi tra i due spasimanti le piacesse di più, ma commise l’errore di canzonare il cardinale, dicendogli che solo gli occhi del bel Giulio valevano più di tutta la sua persona. Già in passato c’erano stati screzi tra i due rampolli estensi, e questa volta il porporato decise di passare alle maniere forti. Ordinò ai suoi sgherri di uccidere il rivale e di cavargli gli occhi. L’attentato non riuscì; non del tutto, per lo meno. Giulio rimase sfregiato e carico di rancore, tanto da organizzare una congiura ai danni del fratellastro Alfonso. Il tentativo fu però sventato, e Giulio subì una lunghissima pena detentiva, che ebbe termine nel 1559 (Ippolito nel frattempo era morto, da quasi quarant’anni). Vecchissimo per i tempi – aveva 81 anni – stupì i ferraresi andandosene in giro per la città ancora gagliardo e sicuro del suo fascino, vestito alla moda di cinquant’anni prima. Tutta la storia è stata raccontata magistralmente da Riccardo Bacchelli, in un saggio avvincente come un romanzo, pubblicato nel 1931.
Chi mi conosce magari si starà domandando: ” E il rimando cinematografico non arriva?”. Sì, eccolo, per concludere. Nel 2005 Florestano Vancini, non trascurabile regista italiano a suo agio con le opere impegnate, peraltro ferrarese egli stesso, gira la sua ultima pellicola: il titolo è “E ridendo l’uccise”. Ne è protagonista Manlio Dovì, attore brillante ed imitatore noto particolarmente al pubblico romano del Bagaglino, che qui interpreta il ruolo del buffone Moschino, coinvolto suo malgrado nella congiura di Giulio d’ Este. L’umile personaggio riesce a barcamenarsi nella difficile situazione, per poi morire anni dopo in circostanze decisamente grottesche, che non rivelo, per lasciare il gusto del finale a chi volesse vedere il film. Mi limiterò invece a dire che il titolo viene dal verso di una poesia sulla morte di un buffone di un non eccelso poeta italiano del Quattrocento, Antonio Cammelli detto il Pistoia. Chi vorrà vedere questo singolare lavoro di Vancini (reperibile in dvd), potrà trovare la conferma di quanto dice Welles (Svizzera a parte): poche epoche eguagliano il nostro Rinascimento quanto a capacità di mescolare splendori e turpitudini.
(La veduta del Castello Estense di Ferrara che ho scelto è opera del pittore ottocentesco Giuseppe Migliari, anch’egli della città rea celebre dall’Ariosto e dal Tasso).

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