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Guido, Marco, Giuseppe: tre vittime diverse, un unico no alla violenza

Erano tutti e tre dei padri, chi un modo, chi in un altro. Guido Galli e Marco Biagi avevano avuto dei loro figli, oggi adulti e affermati in diversi settori professionali, ma cresciuti con quella ferita dentro che non può non far male ancora. Don Peppino Diana aveva fatto un’altra scelta, ma non per questo si può dire che fosse privo di figli, anzi. Ne aveva tanti, nella sua parrocchia e nelle scuole in cui insegnava. Cercava di trasmettere valori importanti, che andavano ben al di là delle semplici nozioni: il coraggio, la dignità, il rispetto della legalità. Tutto ciò lo diceva e lo scriveva, e per questo fu eliminato dentro la sagrestia della sua stessa chiesa, e non aveva 36 anni.

Guido Galli, Marco Biagi e Giuseppe Diana erano uomini diversi, per le inclinazioni e per il differente retroterra geografico-culturale. Un bergamasco, un bolognese, un casalese (colgo l’occasione per far notare che oggi questo termine è diventato sinonimo di camorrista, e non è, questa, tra le conseguenze meno gravi della situazione in cui versano quelle terre: un’offesa che macchia, ingiustamente, il popolo di un’intera città). In comune avevano la passione per l’insegnamento e l’idea che la democrazia e la giustizia non potessero disgiungersi dal rispetto della legalità.

Sono stati ammazzati tutti il 19 marzo. Guido Galli, magistrato e docente universitario, nel 1980, all’interno dell’Università degli Studi di Milano, in quell’aula 309 dove aveva appena tenuto una lezione. La vita di Marco Biagi fu spezzata nel 2002, a Bologna, sotto casa sua, dove era appena giunto in bicicletta. Tornava dalla stazione, dove ogni giorno prendeva un treno per andare a lavorare nel suo Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università di Modena. L’agguato mortale a Don Diana avvenne nel 1992, come si è detto, ed era anche il suo onomastico.

Uomini eccezionali e nello stesso tempo normali, che stavano in mezzo alla gente, che svolgevano nella società mansioni importanti e che nello stesso tempo era fin troppo facile aggredire, essendo privi di qualsiasi protezione. Sono stati ammazzati per motivi diversi, ma in fondo uguali. Due perché considerati nemici di un assurdo e sanguinoso progetto eversivo, teso a negare il libero dibattito democratico in nome di una folle rivoluzione che si riteneva giusta. Un altro, Don Giuseppe, perché si era schierato contro un’organizzazione criminale che fa del guadagno illecito, ottenuto con il sangue e l’impoverimento di un’intera regione, il proprio credo. In ogni caso, gli assassini sono stati accomunati dalla medesima volontà di negare i più elementari principi della nostra Costituzione, nonché dalla stessa vigliaccheria.

Sono stati ammazzati (uso ancora, volutamente, questo termine brutale) il giorno di San Giuseppe, il giorno della festa del papà, e oggi dobbiamo dire che di padri così il nostro paese avrebbe un grande bisogno, come avrebbe bisogno di tanti e tanti uomini (e donne) con la loro intelligenza ed il loro coraggio. Ricordarli significa onorarli, e soprattutto riflettere su quanto si dovrebbe, anche nelle piccole realtà quotidiane che dobbiamo affrontare, cercare di prendere esempio da loro. Per rendere il loro sacrificio non vano, e l’Italia un paese normale.

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