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Michelangelo: il tormento e l’estasi di un eroe

Ieri ho proposto ai miei studenti un video didattico su Fëdor Dostoevskij, e mi ha molto colpito la definizione – data in apertura dal curatore del documentario, il prestigioso accademico Cesare De Michelis – del grande scrittore russo come “eroe della cultura”.

Formula forse generica, ad effetto, ma tutt’altro che priva di efficacia, che mi ha spinto a delle riflessioni, sul suo significato, innanzi tutto, e sulla possibilità di applicarla anche ad altri personaggi: Tra Dante, Petrarca e Boccaccio, ad esempio, è ovvio che sia l’autore della “Commedia” il più adatto a rivestire panni eroici: e, per restare in sintonia con gli autori che sto trattando con la classe in questione, la definizione potrebbe valere anche per Ugo Foscolo: anzi, è lo stesso poeta di Zacinto a presentarsi come eroe romantico, “bello di fama e di sventura”, come il suo Ulisse, che però alla fine riuscì a baciare la sua “petrosa Itaca”, mentre a lui il destino riserverà una morte solitaria, in terra straniera. Ecco, ho fatto notare ai ragazzi, Dante, Foscolo e Dostoevskij sono accomunati – pur nella diversità delle loro epoche – da una condizione umana sofferta, da una serie di avversità, anche da quelle che potremmo dire persecuzioni politiche. Però, oggi che è il 6 marzo, e ricorre il 539^ anniversario della nascita di Michelangelo, mi sembra inevitabile pensare anche a questo grande nome come a quello di un “eroe” dell’arte; ma, al contempo, sento il bisogno di precisare ancor meglio i motivi che possono rendere accettabile l’uso di questo termine.

Eroico appare innegabilmente, il Buonarroti, non solo perché ebbe rapporti difficili con i potenti del suo tempo (papa Giulio II in primis), nonché con molti altri contemporanei; ma anche per la potenza della propria ispirazione che lo ha portato a interpretare la vocazione artistica in modo solitario ed agonistico, contro l’opinione altrui, contro la materia da plasmare e persino – verrebbe voglia di dire – contro se stesso, in una quotidiana ed immane battaglia contro un’ispirazione tanto grande e geniale da non poter non provocare sofferenza.

Concezione romantica dell’artista, si dirà. Ed infatti l’aura di eccezionalità intorno a Michelangelo crebbe a partire dal tardo Settecento, con l’ammirazione incondizionata di autori come Füssli, Blake, Reynolds. Quest’ultimo lo paragonò ad Omero e a Shakespeare, per aver esplorato “le regioni più sconosciute dell’immaginazione”; e nel nome del pittore della Sistina volle concludere il suo ciclo di lezioni presso l’Accademia Reale fondata nel 1769: “l’ultima parola che pronuncio da quest’Accademia, da questa cattedra, sia il nome di Michelangelo”. In realtà, come sostiene Giuliano Briganti, questa idea dell’arte, e di chi la professa ai più alti livelli, ha radici proprio nel Rinascimento. Precedentemente, il giudizio di valore si basava sull’estetica della mimesi: un’opera d’arte valeva quanto più risultava una fedele imitazione della natura. Durante il periodo cui Michelangelo appartiene, la mimesi viene sostituita dalla creazione, e l’interesse non coinvolge più solo l’opera, ma la persona dell’artista, con i suoi intenti, le sue idee, il suo processo creativo. Possiamo dunque dire che i concetti di “forza creatrice” e di “genio” siano molto sentiti nel Rinascimento, anche se la loro formulazione precisa sul piano speculativo si ha più di due secoli dopo.

Del resto, furono i contemporanei stessi di Michelangelo – il Vasari, il Condivi, Vittoria Colonna, il Varchi – ad affermare la superiorità dello scultore del David rispetto alla natura stessa, equiparandolo quindi a un dio. Troviamo conferma di questa eccezionalità di Michelangelo fin dai suoi primi passi nel mondo artistico della Firenze dei suoi tempi. L’abilità mimetica cui si è accennato prima, si acquisiva nel fondamentale apprendistato presso la bottega di un maestro, dove avveniva una importantissima trasmissione di procedimenti artigianali. Questo comportava un sentimento collettivo, un orgoglio di appartenenza che rimanda allo spirito del cantiere e della corporazione. Tale spirito è superato da Michelangelo, con la sua idea di arte come forza creatrice individuale. Il cervello viene in lui prima della mano, e il suo stesso voler lavorare da solo, eseguendo personalmente ogni particolare (si pensi, ovviamente, alla Sistina, dove cogliamo quasi l’immagine di un corpo a corpo con un’idea prodigiosa da realizzare) contrasta con la collaborazione tipica del lavoro delle botteghe, che risultava decisivo specie nell’esecuzione di grandi cicli e di opere complesse.

Se si ricorda poi, tornando alle mie modeste considerazioni d’apertura, che anche Michelangelo ebbe a vivere in tempi difficili, ecco che la figura dell’eroe prende corpo ancor più concretamente. Si può confrontare l’esistenza di questo colosso con quella di Raffaello: breve e felice, si potrebbe dire parafrasando Hemingway, la vita di quest’ultimo, soprattutto perché si svolse tutta al di qua di un drammatico “terminus ante quem”, il Sacco di Roma del 1527. L’artista di Caprese in Val Tiberina, eroe, titano, sovrumano genio, fu invece testimone di tremendi cambiamenti che stravolsero la storia d’Italia: e questo non può non aver conferito un ulteriore tocco di drammaticità e di epica grandezza alle sue opere, di fronte alle quali restiamo attoniti partecipi un interesse collettivo che non accenna affatto a diminuire, ma cresce anzi di decennio in decennio.

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