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Nobiltà e miserie di due grandi napoletani

Ieri si parlava di D’Annunzio, della sua fama e del suo essere stato coinvolto in situazioni che sarebbero state inimmaginabili anche per molti letterati suoi contemporanei, nonché per quelli che vissero soltanto pochi decenni prima di lui.

Veramente clamorosa, tra le altre, fu la vicenda che lo vide sporgere querela contro il commediografo napoletano Eduardo Scarpetta, colpevole – agli occhi del Vate – di aver ridicolizzato il suo dramma del 1904, “La figlia di Iorio”, proponendone una parodia, come peraltro aveva già fatto per “La bohème” di Giacomo Puccini. In quell’occasione Scarpetta aveva ottenuto il consenso del musicista, mentre D’Annunzio, pur divertito dall’idea, non aveva ritenuto di poter concedere il nulla osta. Ma “Il figlio di Iorio” (caratterizzato dallo scambio tra i ruoli maschili e femminili) andò ugualmente in scena, nel dicembre del 1904. Appoggiato dalla Siae, Gabriele si rivolse al Tribunale di Napoli, presso il quale si svolse un lungo dibattimento, che attirò l’attenzione del grande pubblico e di noti intellettuali. La disputa, che assurse al rango di contesa ideale tra la poesia alta e la commedia, si risolse, nel 1908, a favore di Scarpetta, con una sentenza che fece giurisprudenza per casi analoghi. Tuttavia l’uomo di teatro napoletano ne uscì esausto ed amareggiato, al punto da decidere di abbandonare le scene.

 

Eduardo è un nome che non lascia indifferenti quando si parla di teatro, non solo a Napoli ma in tutta Italia. E infatti il grande De Filippo, drammaturgo ed interprete dall’immenso carisma, era figlio proprio di Scarpetta. Questi, nato ovviamente a Napoli il 13 marzo 1853, ebbe una vita sentimentale quanto mai frenetica, della quale non è facile dar conto. Curiosamente, le sue donne di cognome facevano spesso De Filippo: Rosa De Filippo, nota bellezza partenopea già amante del “re galantuomo” (e donnaiolo) Vittorio Emanuele, fu sua moglie; dalla nipote di costei, Rosa, nacquero i tre grandi De Filippo – Eduardo, come si diceva, Peppino e Titina – mentre Anna, sorellastra della moglie, gli diede un altro figlio, Ernesto Murolo, noto poeta e musicista, padre del famoso cantante Roberto, che molti conoscono per una collaborazione con Fabrizio De Andrè.

Nonostante (o magari forse proprio in virtù di) questo sfrenato attivismo erotico, nella vita di Scarpetta c’è tanto spazio per il teatro, nel quale si impose con il personaggio comico di Felice Sciosciammocca, uno scrivano pubblico sempre assillato dalla povertà e dalla fame, sua e dei suoi, che trova la sua massima espressione nella celebre commedia “Miseria e nobiltà”, portata poi al successo cinematografico nel 1954 da Totò. Qui il principe della risata – diretto dal solito grande Mario Mattoli – interpreta magistralmente Don Felice, in una sarabanda irrefrenabile e divertentissima di equivoci e di lazzi, che naturalmente molto debbono all’originale stesura teatrale di Scarpetta, nonché a tutta la tradizione comica napoletana, risalente al ‘600 e all’immortale Pulcinella.

Tornando alla contesa giuridica tra Eduardo e Gabriele, da cui siamo partiti, c’è da dire che, nel mondo culturale napoletano pochi si schierarono a difesa del teatrante napoletano, ma tra questi “felici pochi” figura niente meno che don Benedetto Croce, vale a dire il massimo intellettuale italiano dell’epoca. Tra i molti che diedero ragione al Vate, si annovera anche un grande poeta in lingua napoletana, Salvatore Di Giacomo, di cui curiosamente ricorre oggi, come per Scarpetta l’anniversario della nascita. Questo personaggio era più giovane di sette anni rispetto al padre dei De Filippo, e deve non poco del suo prestigio di poeta al giudizio lusinghiero che di lui diede lo stesso Croce poc’anzi citato (dal quale tuttavia lo separava la simpatia per il regime mussoliniano, tanto che fu tra i firmatari del “Manifesto degli intellettuali fascisti”, cui si contrappose l’analogo documento antifascista redatto dal grande filosofo). La fama di Di Giacomo è però legata al fatto che alcune sue liriche furono messe in musica da famosi compositori dell’epoca, che realizzarono così dei grandi classici della canzone napoletana. Basta citare “Marechiaro”, musicata da Francesco Paolo Tosti (amico e conterraneo di D’Annunzio, tanto per stabilire ulteriori legami tra i protagonisti di questo articolo) e “Era de maggio” (la cui melodia è firmata da Mario Pasquale Costa), tuttora un cavallo di battaglia dell’orchestra di Renzo Arbore.

Non c’è che dire, tutto molto intricato; anzi – per restare a Napoli – uno “gliommero”, cioè un garbuglio inestricabile, come è solito dire il commissario Ingravallo nel “Pasticciaccio brutto” gaddiano.

 

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