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Storia di un Botticelli boccaccesco (e pentito)

Di scene di caccia infernale, il Medio Evo non è certo avaro: le più famose sono quella del XV canto dell’Inferno dentesco (ma, se vogliamo, ha lo stesso valore anche il sogno del conte Ugolino, nel penultimo canto della stessa cantica), e quella descritta da Jacopo Passavanti nella novella “Il carbonaio di Niversa”, all’interno del suo “Specchio di vera penitenza”. Ma ci voleva il Boccaccio, con la sua visione del mondo naturalistica e con il suo gusto per la vita gioiosamente vissuta, per rovesciare, non senza un tocco di malizia, i termini della questione e trasformare la spaventosa vicenda nello strumento utile al coronamento di un sogno d’amore, nonché in una lezione di umiltà per una ragazza un po’ troppo superba.

La storia è una delle più note tra le cento narrate dal geniale scrittore di Certaldo, e fonde in modo magistrale notazioni realistiche e un’atmosfera macabra e surreale. Nastagio degli Onesti è un giovane benestante e di animo gentile, perdutamente innamorato di Lucia, rampolla della prestigiosa famiglia dei Traversari: Il matrimonio tra i due sarebbe comunque realizzabile dal punto di vista delle convenienze economiche e sociali, se non che la ragazza respinge sdegnosamente il pretendente, forse solo perché troppo superba della sua bellezza e del suo casato. Intanto Nastagio si consuma nell’animo, rischiando di compromettere la salute e il patrimonio, ma mentre passeggia malinconicamente nella pineta di Classe, assiste ad uno spettacolo spaventoso. Un cavaliere accompagnato da una muta di cani insegue una fanciulla nuda, che presto cade preda del feroce cacciatore: il quale, smontato da cavallo, trafigge la sventurata e, cavatone il cuore dal petto, lo getta in pasto ai suoi cani. Si tratta di una selvaggia vendetta, di fronte alla quale, come spiega lo stesso spietato esecutore, Nastagio non deve pensare di opporsi. Neppure lo potrebbe, del resto, dal momento che sia l’uomo che la donna sono in realtà anime defunte che scontano in questo modo i loro peccati: lui, per essersi tolto la vita, a causa del rifiuto opposto dalla giovane al suo amore; lei, per essere stata sin troppo sprezzante e per aver addirittura goduto del suicidio dello sventurato. Dopo aver aggiunto che la caccia si ripete in vari luoghi terreni, e che quindi, ad una data certa, la scena si ripeterà nella pineta romagnola, il cavaliere risale sul suo destriero, la donna riprende vita e i cani si rimettono con il loro padrone sulle sue tracce, per una replica dell’orrenda punizione.

Nastagio, sconvolto, è però abbastanza lucida da meditare sul fatto che è possibile trarre profitto da quello che ha visto: basterà organizzare un sontuoso banchetto in mezzo alla pineta, invitando le principali famiglie ravennati, compresa quella dei Traversari con l’altera Lucia. Si dovrà però scegliere con cura il giorno del ritrovo, e tutti – ma soprattutto l’amata crudele – avranno modo di vedere cosa capita nell’aldilà alle donne troppo dure nei confronti dei loro spasimanti. Tutto va secondo i piani, Lucia si prende un terribile spavento e assume subito tutt’altro atteggiamento. Il matrimonio si farà, ma l’effetto collaterale – come annota maliziosamente il narratore – riguarderà le donne di Ravenna in generale, che da quel giorno furono molto più disponibili a cedere ai desideri degli uomini, per paura di dover essere punite orribilmente nell’aldilà.

All’incirca 140 anni dopo la scrittura del “Decameron”, il singolare episodio trova spazio in una delle tante pagine illustri del meraviglioso romanzo della storia dell’arte italiana, ad opera di quell’ Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi – universalmente noto come Sandro Botticelli – di cui ricorre oggi il 569^ anniversario della nascita. Per volere forse dello stesso Lorenzo de’ Medici, l’artista realizza infatti quattro pannelli da cassone ispirati alla novella, destinati ad impreziosire il regalo nuziale del Magnifico a Giannozzo Pucci e a Lucrezia Bini. Ne viene fuori qualcosa di inconsueto per il pittore di tanti soggetti mitologici; ed anche se oggi gli studiosi sono inclini ad attribuire il lavoro in misura prevalente ai giovani della bottega del maestro (quell’atelier impostato su scala quasi industriale argutamente descritto da Federico Zeri), il livello dei dipinti è considerato, in modo concorde, di valore assoluto. Delle quattro scene, solo una si trova ancor oggi a Firenze, mentre le altre tre (compresa quella che ho scelto per illustrare questo post, che è la seconda) sono visibili (donate nel 1941 dall’ultimo dei collezionisti privati che se le sono passate di mano in mano nel corso dei secoli) al Museo del Prado di Madrid. 

Un’ultima osservazione va fatta, a proposito di questa curiosa e inaspettata influenza boccacciana sull’opera del Botticelli: con questo suo risvolto ammiccante e spregiudicato (in fin dei conti il messaggio finale è: donne, state attente, troppa durezza nei confronti degli amanti comporta una punizione infernale), il soggetto in questione sarà stato rinnegato, almeno idealmente, dal pittore che, in seguito alla predicazione del Savonarola – di cui pure ho scritto di recente – cambiò totalmente ispirazione, dedicandosi esclusivamente ai soggetti sacri. Scelta legittima, per carità: ma buon per noi che nessuno abbia pensato di gettare tra le fiamme le preziose tavole di cui si è detto. Sarebbe stato uno dei tanti scempi che il fanatismo – di qualsiasi ispirazione – ha già causato in varie epoche storiche e a diverse latitudini.

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