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Un vate per il cinema, da Cabiria a Visconti

Nell’eccellente trasposizione cinematografica del “Maestro di Vigevano” di Mastronardi, operata nel 1963 da Elio Petri, D’Annunzio gioca un ruolo non trascurabile; il mite e frustrato Nanini, l’eterno supplente che spera di passare finalmente di ruolo superando il concorso, viene incitato dal suo amico Mombelli (Alberto Sordi) a ripassare il vate pescarese.

Ma lui ribatte, seccato, che del divino Gabriele e della sua insopportabile retorica non gliene importa nulla. Il giorno dopo si reca davanti alla commissione e, come volevasi dimostrare, viene interrogato proprio su D’Annunzio. Non sa rispondere, viene bocciato, e si suicida. Quando invece sarà Mombelli a sostenere nuovamente il concorso, per rientrare nel mondo della scuola dopo un fallimentare tentativo imprenditoriale, se la caverà egregiamente, snocciolando a raffica una serie di motti dannunziani: “Fare di sé stesso un isola”; “L’Orbo veggente”; “Io ho quel che ho donato”; “I biscotti italiani sono migliori dei migliori biscotti inglesi”. E così i prevedibilissimi esaminatori sono accontentati, e forniscono a Mombelli il lasciapassare per tornare ad un lavoro che più grigio e umiliante non si potrebbe immaginare, ma che costituisce comunque il limite estremo del suo orizzonte.

Già: D’Annunzio Quanto ci sarebbe da dire su di lui, oggi che ricorre il 151^ anniversario della nascita di questo personaggio sicuramente grande, ingombrante addirittura, tanto che Montale disse che, per i giovani poeti dell’epoca in cui lui stesso esordì con “Ossi di seppia”, era necessario “attraversarlo”, intendendo sottolineare, con questo verbo, la necessità di confrontarsi con l’autore di “Alcyone”, per superarlo, anche con intento polemico, senza però ignorarlo.

Mi limiterò, per il momento, a poche osservazioni riguardo i rapporti intercorsi tra il Vate e la moderna “società dello spettacolo”, per citare l’efficace definizione che del nostro mondo occidentale ha dato Guy Debord. Già la serie di formule mnemonicamente recitate dallo zelante maestro Mombelli ci fornisce un primo spunto: l’ultima – infatti – quella esaltante la superiorità dei nostri biscotti su quelli albionici, rimanda ad un lato molto dinamico e spregiudicato dell’attività dell’autore abruzzese, quella di precursore degli odierni pubblicitari. Come è risaputo, fu lui a coniare il nome “La Rinascente” per i famosi grandi magazzini, ed anche la denominazione dei biscotti “Saiwa” è dannunziana.

Il famoso scrittore, “l’imaginifico” come egli stesso amava definirsi, fu poi molto interessato anche alla nascente arte (nonché industria) cinematografica. Il 1914 fu decisivo da questo punto di vista: in quell’anno, infatti, pubblicò un saggio in cui prendeva posizione a favore della settima arte (“Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione”),  precedendo di due anni il manifesto futurista in proposito, e distinguendosi da buona parte dei letterati italiani che, con l’eccezione di Papini, non guardavano con simpatia alla nuova forma di spettacolo. Ma, soprattutto, nel ’14 fu girato “Cabiria”, di Giovanni Pastrone, il kolossal italiano (senza paragoni con le opere precedenti per la durata e per i costi)degno di essere accostato ai capolavori americani di Griffith, “Nascita di una nazione” e “Intolerance”, che seguiranno a breve distanza. È la storia di una giovane sicula, Cabiria appunto, che vive drammatiche vicende ai tempi della seconda guerra punica. Per due volte un agente romano in incognito, Fulvio Axilla, e il suo possente liberto Maciste, la salvano dal sacerdote Karthalo, – incarnazione della “perfidia punica” – che vuole sacrificare la ragazza al dio Moloch. Si incontrano, come fonti di ispirazione dell’intricata narrazione, Salgari, Flaubert e, addirittura Tito Livio. D’annunzio cercò di accreditare la voce che lo voleva il principale elaboratore del soggetto e della sceneggiatura, ma si limitò a escogitare il nome della protagonista e a scrivere le didascalie, definite dallo studioso francese Lourcelles “le più spaventosamente letterarie e mistificanti della storia del cinema”. C’è chi sostiene che sia creazione dannunziana anche il personaggio di Maciste, modellato sulla base di erculee figure della mitologia classica, ma tale opinione non è condivisa da tutti gli storici del cinema. Sono invece chiari i motivi che facevano convergere l’interesse del poeta per il cinema: da un lato ,la speranza di poter realizzare lauti guadagni, in un periodo della sua vita in cui i creditori lo assillavano; dall’altro, il rapporto diretto con un vasto pubblico, per lui una massa da ammaliare e soggiogare dal punto di vista emozionale e intellettuale, come già aveva cercato di fare avvicinandosi al teatro. In realtà, però, di tanti soggetti pensati e in parte anche elaborati, poco o nulla fu realizzato effettivamente.

Resta infine da dire dei film di epoca più recente che hanno tratto ispirazione dalla biografia o dall’opera del cosiddetto “inimitabile”. In ordine cronologico, viene per primo “Il delitto di Giovanni Episcopo” di Alberto Lattuada. Vi si narra la discesa agli inferi di Giovanni Episcopo, un modesto impiegato della Roma umbertina (Aldo Fabrizi), spinto da un avventuriero di nome Wenzel a cambiare vita, sposando una donna spregiudicata ed infedele, che in realtà cova in cuor suo il desiderio di fuggire con l’ambiguo personaggio. Quando questi si ripresenta, anni dopo, deciso a sconvolgere nuovamente la vita di Giovanni, che ha accettato di fare amorevolmente da padre a un bambino non suo, il mite protagonista non riuscirà ad evitare di uccidere il suo persecutore con una coltellata alle spalle. Mereghetti giudica discretamente il film, che è del ’47, definendolondolo “un singolare noir italiano in costume” e apprezzando in particolar modo la prova di Fabrizi nelle vesti di interprete drammatico.

Nel 1976 è uno dei più grandi nomi del cinema italiano, Luchino Visconti (al suo ultimo film e prossimo alla morte, a cimentarsi con un romanzo dannunziano, realizzando “L’innocente”. Vi domina la torbida e sofferta relazione tra il freddo e sensuale dandy Tullio Hermil  (Giancarlo Giannini) e sua moglie Giulana (Laura Antonelli). L’uomo vive una serie di avventure adultere, trascurando la bella consorte, ma quando è lei a tradirlo con un giovane scrittore che le dà anche un figlio, se ne sente nuovamente attratto e geloso, ed arriva a far morire di freddoi il neonato, l’innocente del titolo, esponendolo al gelo di una Roma insolitamente innevata (quale del resto era già stata dipinta nel romanzo “Il piacere”). Ma nulla di buono potrà scaturire dall’atto orrendo per Tullio che, abbandonato dalla moglie, si suicida con un colpo di pistola.

Non certo tra i capolavori viscontiani, questo “Innocente”, ma di sicuro migliore rispetto al modesto “biopic” di Sergio Nasca, girato nel 1985. È l’attore Robert Powell – famoso per essere stato il Cristo televisivo di Zeffirelli –  a impersonare il giovane pescarese nei suoi primi anni romani. Con l’aiuto spirituale dell’amico Francesco Paolo Michetti, D’Annunzio si sottrae temporaneamente alle decadenti atmosfere capitoline, per scrivere il suo folgorante esordio narrativo, quel “Piacere” che sarà, insieme al “Dorian Gray” di Wilde, una delle cosiddette “bibbie” dell’estetismo. Dopo di che si getta tra le braccia dell’amante Barbara Leoni (Stefania Sandrelli), che presto però sarà sostituita da altre figure femminili nelle quali Gabriele cercherà, in nome di quel binomio inscindibile tra Arte e Vita da lui stesso teorizzato, tanto la gratificazione erotica quanto l’ispirazione letteraria. Un Vate sempre uguale a sé stesso, questo bisogna in ogni caso riconoscerglielo, finché non arriverà la triste vecchiaia nella prigione dorata e barocca del Vittoriale.

 

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