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Vittorio Pozzo, l’uomo del calcio azzurro

Se si dovesse identificare Vittorio Pozzo con un’unica parola o con una singola espressione, ne potrebbero venire in mente diverse tra cui scegliere: allenatore di calcio, alpino, giornalista, uomo dell’Ottocento capitato quasi per sbaglio nel XX secolo. Ma forse converrebbe dire di lui che fu semplicemente un piemontese, uno di quelli veri, dediti con cocciutaggine e devozione alla religione del lavoro, quello che dalle sue parti chiamavano “ël travai”, come ha ben saputo spiegare un cuneese doc, Giorgio Bocca.

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Nato a Torino il 2 marzo 1886, Pozzo è stato un personaggio straordinario nella storia del calcio italiano. Inizialmente attirato dall’atletica leggera (specialità, i 400 metri), aveva tuttavia il football nel sangue; fu un coetaneo calciatore a fargli notare che, se proprio voleva correre, allora sarebbe stato meglio farlo andando dietro a un pallone. Del resto, già da scolaro – come si usava dire allora, perché erano ancora i tempi del “Cuore” deamicisiano – insieme ad una combriccola di ragazzini era scappato un giorno da Torino, con destinazione Genova, per assistere ad una partita della più gloriosa squadra italiana, quel Genoa Football and Cricket Club che aveva fatto incetta di scudetti fin dal primo campionato, quello del 1898. Le spese per la trasferta furono pagate vendendo i libri di scuola: marachelle da Pinocchio, il burattino non a caso protagonista dell’altra grande storia per i giovanissimi di quell’Italia ancora ingenua ed ignara degli orrori che sarebbero venuti.

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Il giovanissimo Vittorio, comunque, era tutt’altro che uno studente indisciplinato, e la famiglia gli volle far completare il ciclo d’istruzione addirittura in Svizzera, allo scopo di fargli apprendere le lingue e di trasformarlo in un perfetto dirigente di imprese commerciali o industriali. Ne venne fuori un poliglotta che parlava cinque lingue e che, per completare l’opera, fu mandato anche in Inghilterra: e se già prima amava il calcio, lì ne contrasse la passione in modo tale che sarebbe durata per tutta la vita.

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Contribuì a fondare il Torino F.C., quella che sarebbe stata la squadra a lui più cara e che allenò anche, per alcune stagioni; ma era arrivato il momento di mettere a frutto gli studi, e riuscì a farsi assumere dalla Pirelli, azienda nella quale avrebbe potuto portare avanti una brillante carriera dirigenziale. Ma c’era questa malattia del football, e addirittura la possibilità di guidare la Nazionale italiana. Una prima esperienza ci fu nel 1912, ma di breve durata; se ne riparlò nel ’24, e quella fu la volta buona. In mezzo c’era stata la I guerra mondiale combattuta tra gli Alpini – esperienza patriottica per lui fondamentale – poi ancora il lavoro alla Pirelli e, nel contempo, l’avvio di un’attività giornalistica per “La Stampa” di Torino che continuò a praticare anche dopo l’abbandono del calcio. Per quanto riguarda la guida dell’Italia, c’è da dire che – a quei tempi – l’usanza era quella di affidarla ad una commissione composta di esperti di varia estrazione e dirigenti federali: Pozzo fu, per un lungo periodo della storia del calcio italiano, la sola figura di commissario tecnico unico che si ricordi. Mantenne questo ruolo fino al 1948, vincendo tutto quello che c’era da vincere, soprattutto prima della II guerra mondiale, dunque negli anni ’30: due titoli mondiali, nel ’34 e nel ’38 – e per decenni rimarranno gli unici a far gioire gli appassionati italiani, finché non arrivo il 1982 e una pattuglia di campioni guidata da un altro c.t. vecchio stampo, Enzo Bearzot – e le Olimpiadi di Berlino del ’36. Un’attività, questa, portata avanti – si badi bene, e suona incredibile oggi – senza alcun compenso, per scelta dello stesso Pozzo, che intendeva garantirsi in questo modo la massima indipendenza nelle scelte tecniche.

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Erano gli anni di fenomeni azzurri come Meazza e Piola, tra i campioni più grandi che l’Italia abbia mai avuto, e di avversari altrettanto mitici quali Sindelar, Sarosi, Zamora. Erano gli anni in cui si poteva vincere il torneo olimpico con i gol di un centravanti che scendeva in campo con gli occhiali, somigliando così più ad uno studente secchione, che però di gol ne faceva, pure nella sua Ambrosiana-Inter: si chiamava Annibale Frossi. E poi c’erano le sfide con l’Inghilterra, la patria dei maestri del calcio che ritenevano superfluo cimentarsi nei mondiali; con gli “albionici”, come si diceva allora, l’Italia ebbe epiche sfide, mai dall’esito vittorioso, ma sempre giocate a testa alta, con risultati onorevoli, quali pareggi o sconfitte di misura. Poi venne il 16 maggio 1948, l’ultima partita dell’Italia con Pozzo in panchina. La speranza era quella di vincere finalmente con i britannici nella sua Torino, ma le cose andarono nel modo peggiore: un mortificante 4-0 senza appello, con quel primo gol di Mortensen realizzato con un incredibile tiro dalla linea di fondo, che si insacca anche per un discutibile piazzamento di Bacigalupo, il portiere del grande Torino di Valentino Mazzola che allora costituiva l’ossatura della Nazionale.

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Già, il grande Torino: Pozzo non immaginava certo, nel giorno di quell’amara ultima partita del ’48,  che sarebbe toccato a lui, un anno dopo, riconoscere uno ad uno i corpi di quei campioni, per evitare alle famiglie anche quello strazio. Un dolore grande per quell’uomo già anziano, che avrebbe continuato a scrivere di calcio, la sua vita, per altri venti anni, fino alla morte, nel 1968. Era forse la massima autorità calcistica del nostro paese: c’è chi ricorda di aver sentito più volte nei bar risuonare la frase: Ma se l’ha scritto Pozzo!”, usata per troncare con un’argomentazione definitiva una discussione su qualche questione tecnica.

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Questo fu l’uomo con cui il calcio italiano si è a lungo identificato, e a cui la sua città ha rifiutato l’onore di intitolare lo stadio, per il semplice fatto di aver guidato al trionfo una Nazionale delle cui vittorie il regime fascista aveva fatto, a suo tempo, un uso propagandistico. Una vera ingiustizia, come hanno denunciato illustri giornalisti quali Antonio Ghirelli, Bruno Bernardi, Giampaolo Ormezzano e lo stesso Giorgio Bocca. Nel 2008 gli è stato dedicato lo stadio di Biella; magra consolazione, si dirà: ma almeno è segno che qualcuno che sa capire il vero valore degli uomini di sport ancora c’è.

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