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DI CORSA VERSO LA LEGGENDA

All’inizio di un suo curioso libretto dedicato alle figure di Coppi e Bartali, Curzio Malaparte sostiene che “in Italia, se per caso dite che la bicicletta non è stata inventato da un italiano, intorno a voi gli sguardi si faranno cupi e sui volti calerà una maschera di tristezza”.

Ma, poco più avanti, l’autore di “Maledetti toscani” è costretto ad ammettere che l’inventore dell’affascinante mezzo a due ruote è un inglese, di cui però – per ripicca – non vuole fare il nome. Bisognerebbe aggiungere che anche la prima vera ed importante corsa internazionale su pista si svolse -il 24 marzo del 1883 – tra i sudditi di Sua Maestà Britannica, a Leicester, per la precisione, e a vincerla fu un francese, Frédéric de Civry. Costui coprì la distanza di 50 miglia in 3 ore e 13 minuti, staccando di 3′ il secondo arrivato. Alcune fonti considerano questa gara come il primo campionato mondiale di ciclismo su pista, ma su questo aspetto non c’è molta concordia: si sa, i tempi erano pionieristici e molto ancora c’era da definire dal punto di vista organizzativo, ma resta in ogni caso l’importanza storica dell’evento. Noi di “Punto cultura” lo ricordiamo proponendo ai nostri lettori una suggestiva immagine, cioè un dipinto firmato da Aligi Sassu, citato in un libro dedicato al maestro sardo da Gianni Brera, il massimo cantore nazionale delle epopee sportive popolari, ma anche raffinato uomo di cultura ed intenditore d’arte. Queste sono le parole con cui il Gran Lombardo della pagina sportiva descrive i disegni dell’artista in cui è ritratto il mito del ciclismo per eccellenza:”“Fausto Coppi è un airone giovane e triste. Gli si legge negli occhi un drammatico destino. Aligi ne disegna lo sterno da uccello, le gambe spropositate (che poi asciugherà la fatica improba della strada), il lungo naso che spiove sulla bocca amara: la balenante immagine d’un pesce che inghiotta plancton in un fondale aspro e disagevole: Ahimè, quasi nulla può la fantasia, al cospetto d’un cavallo inventato dai meccanici. Coppi lo incanta per com’è brutto, all’apparenza, quando cammina con l’impaccio d’un papero fuori dall’acqua, e per come invece trascina quando l’agonismo lo accende. La simbiosi fra uomo e bicicletta permane un mistero che la matita, per quanto abile, non può svelare. Così, d’istinto, Aligi si astiene dal tragico in ciclismo. Ed io proprio di questo mi commuovo, perché ne conosco i giovanili abbandoni, l’estasi di auto glorificazione immobile (i sogni di gloria a tutti pedali!)”.

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