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MONTSERRAT CABALLÉ E UNA LUCREZIA DA RISCOPRIRE

Ancora un’incursione – per “Punto cultura” – nei territori del melodramma italiano dell’Ottocento; e se pochi giorni fa ci eravamo addentrati nella seconda metà del secolo, con la “Gioconda” di Amilcare Ponchielli, oggi torniamo indietro fino all’epoca di Gaetano Donizetti.

L’occasione ce la offre il compleanno (festeggiato esattamente il 12 aprile) di una delle più amate cantanti del Novecento, Montserrat Caballé, nata a Barcellona e conosciuta anche da un pubblico più vasto rispetto a quello formato dai puri melomani, per la sua partecipazione a iniziative del tipo detto “crossover”, che magari fanno storcere il naso ai puristi, ma che altri ritengono comunque meritorie. A noi però oggi interessa soffermarci su un’opera che può essere considerata uno dei punti di forza del celebre soprano catalano, la “Lucrezia Borgia” del già citato Donizetti, che le diede fama internazionale nel 1965, quando fu chiamata a sostituire Marylin Horne nel ruolo della protagonista, in un’esecuzione in forma di concerto prevista alla Carnegie Hall di New York. Da allora la Caballé si è esibita spesso e con vivi apprezzamenti in questa parte, anche per il suo debutto come primadonna alla Scala, nel 1970. Venendo ad un rapido excursus sull’opera (che è del 1833), diremo che anche questa, come altri lavori (di Verdi o del già citato Ponchielli) è debitrice di un testo teatrale di Victor Hugo, rimaneggiato in questo caso dal librettista Felice Romani. A dire il vero il celeberrimo autore francese negò il suo assenso per questa versione musicata del suo dramma, per cui si dovette ricorrere inizialmente ad un altro titolo (“La rinnegata”), a diversi nomi per i personaggi, e ad ambientazioni bizzarre, quali la Tuchia (forse per via di reminiscenze mozartiane). Ad ogni modo, la vicenda così come la volle Romani ha come teatro ancora una volta Venezia (proprio come la nostra recente “Gioconda”). Qui Lucrezia Borgia è presentata come ospite malsopportata dai cittadini della Serenissima, al pari di suo marito, il duca Alfonso d’Este. Entrambi sono considerati dei pericolosi intriganti, a loro agio con i complotti ed i veleni; inoltre sulla dama grava la nomea di donna dissoluta e corrotta, che si è concessa facilmente a molti amanti. Quest’ultimo particolare è noto anche al nobile estense, che non è disposto a sopportare ulteriori tradimenti; e tutta la trama del melodramma musicato da Donizetti è attraversata dai tentativi del crudele Alfonso di sfogare il proprio desiderio di vendetta su un giovane diplomatico, Gennaro, che sembra oggetto di attenzioni molto particolari da parte della bellissima figlia del papa Alessandro VI. Ma non si tratta di un altro ragazzo chiamato a soddisfare le voglie di Lucrezia: come un anno prima, in uno dei suoi lavori più importanti – “Il re si diverte” – Hugo aveva voluto superare gli schemi secolari secondo i quali un personaggio di bassa estrazione non poteva nutrire sentimenti elevati ed essere soggetto di vicende drammatiche, attribuendo al buffone di Francesco I di Francia, Triboulet (quello che poi sarà Rigoletto nell’immortale rielaborazione verdiana) un tenero amore per una figlia segreta che inevitabilmente dovrà perdere, così in questo caso alla peccatrice non viene negata la possibilità di nascondere nel proprio cuore un fondo di purezza. Lucrezia è interessata a Gennaro, e gli manifesta un delicato affetto – che tutti scambiano per un bruciante desiderio erotico – perché il giovane è un suo figlio segreto, avuto da giovanissima e che aveva dovuto abbandonare. Dopo aver salvato l’ignaro ragazzo da un primo tentativo di avvelenamento da parte del marito, nulla potrà la donna quando ad essere intossicati con un vino letale saranno in molti, tutti invitati da Alfonso ad una festa nel suo palazzo con lo scopo di eliminarli in quanto colpevoli di aver mancato di rispetto alla sua casata (era stato Gennaro stesso, che per dimostrare agli amici la sua indifferenza nei confronti di Lucrezia, aveva asportato la lettera B dal cognome Borgia campeggiante su un’insegna all’ingresso del palazzo di Alfonso, ottenendo così una parola che ha il sapore di un giudizio inequivocabile: “orgia”). Già una prima volta la duchessa era riuscita a far assumere un provvidenziale antidoto al figlio segreto; in questa occasione egli però preferirà morire con i compagni anziché salvarsi da solo, e il sipario calerà su una scena di dolore, con la madre che rivela a tutti la verità, per poi perdere i sensi. Noi proponiamo l’ascolto della cavatina del primo atto, “Com’è bello, quale incanto”, con Lucrezia che si compiace dolcemente della leggiadria di Gennaro, che contempla mentre il ragazzo sta dormendo. Un brano che è divenuto fin dagli anni Sessanta un pezzo forte del repertorio della Caballé, eseguito spesso con particolare consenso del pubblico in recitals e concerti. Vi offriamo anche il testo con le indicazioni sceniche originali dal libretto del Romani.
Come è bello!… Quale incanto
in quel volto onesto e altero!
No, giammai leggiadro tanto
non se ‘l finse il mio pensiero.
L’alma mia di gioia è piena
or che alfin lo può mirar…
Mi risparmia, o ciel, la pena,
ch’ei mi debba un dì sprezzar.
(piange)
Se il destassi!… No: non oso…
né scoprir il mio sembiante.
Pure il ciglio lagrimoso
terger debbo… un solo istante.
(si toglie la maschera e si asciuga le lagrime)

 

 

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