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SPERANZE E PROBLEMI DELL’EPOCA POST-COLONIALE

La data del 4 aprile ci offre la possibilità di spaziare, sia pur brevemente, tra diversi aspetti della storia dei continenti extraeuropei nella seconda metà del Novecento, in quell’epoca difficile eppure ricca di speranze che vide il tramonto pressoché definitivo del colonialismo occidentale.

 

Cominciamo col dire che in questa data si celebra la festa nazionale di uno dei più importanti paesi dell’Africa occidentale, il Senegal, che negli anni Sessanta conquistò l’indipendenza sotto la guida di un personaggio-simbolo quale Léopold Sédar Senghor, uomo politico e poeta, portabandiera di quell’orgoglio delle popolazioni nere che trova espressione attraverso il concetto, da lui stesso elaborato, della “négritude”. In occasione di una delle prime ricorrenze della festa del suo paese, Senghor dichiarò aperto, nella sua Dakar, il primo “Festival mondial des arts nègres”, una manifestazione pensata già a partire dal 1959 nel Congresso della Società Africana di Cultura che si era tenuto in quell’anno a Roma. L’obiettivo era naturalmente quello di promuovere e consolidare un senso unitario di identità culturale di tutte le nazioni del continente, attraverso una rassegna di arte tradizionale e contemporanea, accompagnata da conferenze e spettacoli di musica, danza, teatro, poesia e cinema, senza trascurare neppure l’incontro e il dialogo tra l’Africa e l’Occidente bianco. In quell’occasione venne realizzato un edificio destinato ad ospitare mostre ed eventi anche dopo la conclusione dell’evento. Questo avvenne effettivamente, anche se a fine anni Ottanta il palazzo cambiò utilizzo e fu riconvertito a Palazzo di Giustizia, anche se negli ultimi anni si discute della possibilità di farlo tornare alla sua funzione originaria. Il frammento filmato che “Punto cultura” offre oggi ai suoi amici è tratto da un più ampio documentario che ricostruisce le atmosfere di quel primo Festival, che fu poi seguito da altre edizioni, anche se ad intervalli assai irregolari, a testimonianza dei problemi e delle divisioni che travagliano il continente.
Ben più drammatico è però il secondo evento che vogliamo ricordare, e che ci fa spostare al 1979, portandoci decisamente più a est, nel Pakistan. Qui, esattamente a Rawalpindi, il 4 aprile di 36 anni fa, venne giustiziato uno dei più importanti uomini politici della storia di quel tormentato paese, sorto – è bene ricordarlo – dall’immediato contrasto della popolazione musulmana con quella di fede indù, subito dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’India dall’Impero Britannico, nel 1947. Il personaggio di cui vogliamo parlare, Zulfiqar Ali Bhutto (che è poi il padre di Benazir Bhutto, anche lei uccisa in circostanze drammatiche pochi anni fa), iniziò la sua carriera politica proprio negli anni in cui il movimento indipendentista pakistano vide la sua affermazione. Figlio di un importante leader della comunità sindhi, Bhutto visse il suo periodo più intenso negli anni Settanta: fu prima Presidente, poi primo ministro, e si adoperò per una modernizzazione del paese, lottando contro la corruzione e per l’affermazione di una cultura laica. Si impegnò però strenuamente anche in vista di un diverso obiettivo, la realizzazione di un arsenale atomico per il suo paese. Ciò lo pose in contrasto con gli Stati Uniti, che forse non furono estranei al colpo di stato che scalzò Bhutto nel 1977 e che portò al potere un militare, il generale Muhammad Zia-ul-Haq. L’ex premier venne considerato – in verità senza nessuna prova concreta – il mandante dell’omicidio del padre di uno dei suoi avversari politici, e giustiziato dopo un rapido processo-farsa. Zia in verità proseguì e portò a termine il progetto atomico del suo predecessore, ma attuò per il resto una politica assai diversa, tesa a favorire il settore privato in campo economico, e l’islamizzazione dello stato. Quest’ultimo atto nacque più che altro dalla volontà di attirare consensi popolari intorno alla sua figura, messa in discussione dalle crescenti accuse di corruzione che circolavano su di lui e sul suo governo. In politica estera si accordò con gli Stati Uniti per sostenere i ribelli afghani impegnati nella resistenza contro l’invasione sovietica, iniziata proprio nel 1979. Se si pensa a quanto poi l’Afghanistan sia stato al centro delle tensioni e delle guerre scatenatesi in questa regione dopo l’11 settembre del 2001 (data dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, progettato da Osama bin Laden nei suoi sicuri rifugi ubicati nel cuore dello stesso Afghanistan), se si pensa anche al fatto che Zia ventilò l’ipotesi di ripristinare il Califfato islamico, nome che oggi risuona in modo quanto mai sinistro e frequente nei notiziari del mondo intero, non possiamo fare a meno di pensare alla gravità dell’eliminazione di figure quali Bhutto e sua figlia Benazir, fautori di progetti politici razionali e moderni, e proprio per questo ben diversi rispetto ai folli deliri di cui oggi tanto si parla in Medio Oriente, dai quali ci sentiamo giustamente minacciati, e che però sono anche frutto delle pluridecennali ingerenze occidentali in molte aree del pianeta.

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