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MASTROIANNI, UN CUSTER STRANIATO TRA LE MACERIE DELLE HALLES

La data del 25 giugno mi porta a scrivere brevemente della celebre battaglia di Little Bighorn, nel Montana, in cui morì il “generale” (in realtà era tenente colonnello) George Armstrong Custer, trascinando con sé nella rovina più di seicento tra ufficiali e soldati di grado più basso del 7° reggimento di cavalleria, che gli era stato affidato.

Un’altra pagina fosca e violenta di quella storia d’America di cui più volte ci siamo occupati in passato. Ma quello che mi viene in mente innanzi tutto è Wagner. Per via dell’oro. Si era diffusa infatti la notizia della presenza del prezioso minerale sulle Black Hills, le Colline Nere del Dakota, che erano state lasciate a varie tribù di nativi americani per le quali quei territori rivestivano un carattere sacrale. Ed ecco che entra in gioco, almeno nei miei azzardati percorsi culturali, l’immortale compositore che nei suoi drammi musicali “totali” volle far rivivere, in pieno Ottocento, antichissimi miti germanici. Come comincia la prima parte della tetralogia dei Nibelunghi? Con l’oro, appunto, quello che viene custodito nelle acque del Reno dalle ninfe figlie del dio-fiume. E’ prezioso, quell’oro, perché chi lo possedesse potrebbe utilizzarlo per forgiarsi un anello che darebbe il dominio sul mondo intero. Ma per avere l’oro bisognerebbe prima maledire l’amore. E chi è tanto pazzo da compiere questo gesto blasfemo? Chi potrebbe rinunciare ad un sentimento tanto elevato, anche in cambio di un potere smisurato? Quel pazzo si trova, è il nano Alberich, che compie il gesto sacrilego e mette così fine ad un’era di innocenza aurorale del mondo, che non tornerà mai più. A meno che non si sacrifichi una donna straordinaria…ma questa è un’altra storia. Quello che conta ora è sottolineare come i miti abbiano fin da età arcaiche fatto emergere l’antitecità che sussiste tra l’oro e la purezza della pace. “Quid non mortalia pectora cogis, | Auri sacra fames”, esclama indignato e inorridito Virgilio nel III libro del suo poema, raccontando la cupa vicenda di Polidoro, che tanto avrebbe impressionato anche Dante? E così a nulla valse il patto tra governo americano e “indiani”: i cercatori d’oro invasero il territorio, che Custer – ufficiale spesso indisciplinato e di scarso talento ma fornito di buoni agganci politici – fu inviato a presidiare, mentre la presidenza Grant cercava di convincere i nativi a rinunciare anche a quelle colline, in cambio magari di un risarcimento. Nel maggio del 1876 Custer venne informato di un raduno di varie tribù native, e volle poi uscire da Fort Lincoln per rendersi conto di persona di quanto stava accadendo. Dopo diversi giorni di marce forzate, fiaccando la resistenza degli uomini e dei cavalli, il comandante americano avvista, nella valle del fiume Little Bighorn, un gigantesco accampamento di Sioux, Cheyenne ed altre tribù, ma nella tarda mattinata del 25 giugno decide di attaccare nonostante la disparità di forze. Il risultato è il massacro di cui tutti, in qualche modo abbiamo sentito parlare. Il cinema non poteva naturalmente lasciarsi sfuggire la possibilità di narrare una simile vicenda, e non sono mancati i tentativi di presentare Custer come un tipico eroe americano, vittima magari delle trame di biechi speculatori e di politicanti corrotti, come avviene in “They died with their boots on”(1941), di Raul Walsh, con Errol Flynn nella parte del protagonista. Del tutto diversa – né c’è da stupirsi – l’impostazione che nel 1974 diede Marco Ferreri al suo “Non toccare la donna bianca”, in cui la storia di Custer è ambientata, in modo del tutto grottesco e surreale, nel cuore di Parigi, e più precisamente nell’area dove sorgeva lo storico mercato delle Halles, alla cui demolizione si era lavorato in quel periodo, col risultato di lasciare una gigantesca buca in cui i “soldati blu” si rifugiano nell’inutile tentativo di resistere all’attacco dei nemici, che – in piena sintonia con la scelta dello straniamento brechtiano praticata dal regista milanese – sono gli sfrattati ed i clochards del quartiere parigino. Eccellente – e certo molto divertito – il cast, in cui troviamo il gotha del cinema italiano e francese dell’epoca: Marcello Mastroianni nella parte del generale, Ugo Tognazzi come uno scout indiano, Michel Piccoli è Buffalo Bill, mentre Paolo Villaggio è un agente della Cia; non mancano Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Alain Cuny e Serge Reggiani. Noi chiudiamo proponendo un frammento della recensione di Daniele Silipo, cui segue un filmato girato sul set del film, con interviste ai protagonisti: “Sebbene la fossa delle Halles abbia tutto l’aspetto di un deserto dell’Ovest americano, il regista, non si preoccupa di nascondere tutto ciò che la circonda e che, di western, non ha nulla (palazzi moderni, strade asfaltate, automobili). Perché? Perché una volta c’era chi ben pensava uccidendo gli indiani e, ancora oggi, c’è chi ben pensa calpestando gli emarginati, le minoranze e tutti coloro che “appaiono” estranei al comune senso della civiltà, della religione, della sessualità. Quel che interessa a Ferreri, è utilizzare il genere come metafora per rappresentare un’epoca barbara, refrattaria all’integrazione, in cui vige la legge del più forte, non di certo del più «morale»“.

APPENDICE: Nel 1960 il cantante americano Larry Verne portò al successo una canzone dal titolo “Mr. Custer”. Il testo era basato sul comico appello di un soldato che cercava di avvertire il generale del pericolo cui stava andando incontro con la sua marcia verso il luogo dove poi si sarebbe svolto il cruento combattimento. Anni dopo fu Pippo Franco ad incidere una versione italiana del brano, come b-side di un 45 giri dal titolo “Vedendo la foto di Bob Dylan” (pezzo questo definito poi come un raro esempio di beat “proto-demenziale”). Il brano anti-militarista (sia pur scherzosamente tale) venne utilizzato dalla San Pellegrino in un carosello pubblicitario accompagnato da un simpatico cartone animato.

Pippo Franco - Vedendo La Foto Di Bob Dylan + Mister Custer (1968)

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