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LE REGINE DELLA BLACK MUSIC

Nella mia personale “trimurti” delle regine di quello che viene chiamato “nu soul”, metto sul gradino più alto del podio, senza alcun dubbio, Erikah Badu. Ascoltare i suoi due principali album, “Baduizm” e “Mama’s gun”, significa fare un viaggio nella storia della black music, dal R&B al soul, dal funky all’hip hop, non senza venature di jazz. Billie Holiday, Diana Ross, Chaka Khan trovano in lei una degna erede, e la sua musica va presa in forti dosi quotidiane. Effetti collaterali: energia, vitalità, forza nell’affrontare le durezze della vita. E Dio sa se ne abbiamo bisogno…

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Tre dunque le grandi artiste afroamericane che seguo con particolare attenzione; mi sono soffermato su quella che a mio avviso è la migliore, ma qualcuno magari si sarà chiesto: “e le altre due?”. propongo subito la mia medaglia d’argento, che è Alicia Keys. L’immagine stessa che ho scelto evidenzia la netta differenza rispetto alla Badu: da una parte una riscoperta delle radici africane e l’evidente orgoglio per quella che Senghor chiamava “negritude”; qui la ricerca di pose glamour e la volontà di essere parte integrante dello star-system, senza particolari rivendicazioni razziali.

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Qualcuno magari storcerà il naso per la mia scelta, trovando troopo commerciale la Keys; io rispondo lasciando parlare la sostanza di due album, “Songs in A minor” e The diary of Alicia Keys”. Dal primo scelgo “Fallin”, che è uno di quei classici che sembrano esserci stati sempre; dal secondo “If I ain’t got you, il mio preferito in assoluto. un pezzo ricco di suggestioni, per il quale propongo una versione dal vivo, con Alicia sola con la sua voce (diversa, ma non meno evocativa di quella della Badu) e con il suo pianoforte, l’abilità nel suonare il quale rappresenta uno dei suoi punti di forza, tanto da renderla unica nel variegato panorama della black music.

Aggiungo due note a quanto ho detto fin qui delle prime due regine (almeno tali sono per me) della musica afroamericana. Parto dalla Keys, a proposito della quale vorrei evidenziare i pregi del testo di “lf l ain’t got you”. Notiamo un procedimento classico, con l’ io lirico che elenca una serie di atteggiamenti sbagliati o superficiali messi in pratica dalla massa, per contrapporre ad essi un valore assoluto, che in questo caso è l’ amore, naturalmente. Uno schema che vanta precedenti letterari illustri; basti pensare che lo troviamo in Lucrezio e in Dante.

Nell’ambito dei due principali album della Badu, il brano di gran lunga più interessante è “Green eyes”, una suite che supera i 10 minuti andando decisamente al di là dei limiti della forma canzone. Notevole l’ inizio, con la voce di Erikah che sembra provenire da un grammofono anni ’30 e ripete più volte una buffa strofa, rivolgendosi a un amante che l’ ha abbandonata ma nei confronti del quale dichiara, mentendo, di non avere alcun rancore: “ho gli occhi verdi perché mangio un sacco di verdura, e questo non c’entra niente con la tua nuova amica”. Mentre conclude con un acuto da brividi l’ ultima ripetizione di tale strofa, proprio sulla parola “friend” il suono si libera dalle incrostazioni vintage e approdiamo a sonorità venate di jazz che, in un caleidoscopio di variazioni sempre nuove ci trasportano fino alla conclusione, quando la star sussurra: “thank you”. Ma siamo noi a dover ringraziare lei per un capolavoro oltre il quale non sarà facile andare.

E adesso, apriamo un nuovo capitolo.

“Tutti mi dicevano di essere intelligente, pensa alla tua carriera, mi dicevano, Lauryn, tesoro, usa il cervello. Ma invece ho scelto di ascoltare il cuore, e ora la gioia della mia vita è pensare a Zion”.
Non si potrebbero scegliere versi migliori per rendere l’ idea dell’ essenza della musica di Lauryn Hill: espressione delle emozioni e consapevolezza dell’ importanza di essere donna. Uno dei più grandi successi degli ultimi decenni, “The miseducation of Lauryn Hill”, nasce dall’esperienza dell’ attesa di un figlio, vissuta con paura, certo, ma anche con una fede immensa nel fatto che ogni nuovo bambino, ogni nuovo cucciolo di uomo può rappresentare una speranza di salvezza per il mondo intero. Questo infatti sta a significare la scelta del nome Zion per il nascituro.

In principio erano stati i Fugees, con i quali la Hill aveva dimostrato che il rap può avere un’anima gentile, melodica, riflessiva, mediata attraverso inflessioni soul e jazz. Dopo il grande successo di “The score”, arriva la relazione con Rohan Marley, figlio del carismatico Bob (Sion è il simbolo della terra promessa nei testi del profeta del reggae), e la gravidanza, durante la quale la creatività di Lauryn raggiunge livelli eccezionali. “The miseducation…” è la prova che un album ricco di sentimenti e di ricerca musicale può coniugarsi con il successo commerciale, garantito anche da collaborazioni eccellenti, come quelle con Carlos Santana, Mary J. Blige, D’Angelo.

Al trionfo planetario Lauryn reagisce ritirandosi dalle scene, disturbata dalle pressioni dello star-system, anche se l’ “Unplugged” pubblicato successivamente testimonia il persistere della sua creatività e di una nuova attenzione per il tema dei diritti civili.
Con Lauryn Hill il trittico delle grandi artiste afroamericane è completato, e il fatto che l’ abbia presentata per ultima nulla toglie alla mia – e spero vostra – ammirazione per questa grande donna e geniale musicista.

Ma voglio dedicare un’appendice ad un’altra figura di tutto rispetto della black music contemporanea.

Lo stereotipo vuole che la star afroamericana cominci a manifestare il suo talento molto precocemente, come è accaduto per Aretha Franklin o Whitney Houston. Ben diversa è la storia di Macy Gray, che da bambina ha subito un vero e proprio trauma a causa delle crudeli derisioni dei coetanei.

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Il motivo era una voce innaturalmente roca, di cui Macy si vergognava al punto di rinchiudersi nel mutismo. Anche più tardi, quando si trasferì a Hollywood, decisa ad affermarsi nel mondo dello spettacolo, pensava semmai al ruolo di scrittrice e produttrice cinematografica, o a quello di song-writer. Per puro caso salì sul palco di un piccolo caffè, per provare al posto di una cantante indisponibile, proprio quella voce così ruvida e graffiante colpì tutti. Da lì il successo, prima come performer dal vivo, poi con il primo album, “On how life is”, che resta il suo migliore. Una brillante miscela di stili, da cui propongo “Do something” e l’ acclamato singolo “l try”.

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