Nel film “Il settimo sigillo”, capolavoro (uno dei tanti) di Ingmar Bergman e piccola enciclopedia di cultura medievale, spicca tra i comprimari che si affollano intorno al cavaliere Antonius Block – impegnato nella sua memorabile partita a scacchi con la Morte – un uomo mite e gentile, che poco si cura del fatto di essere spesso preso in giro dal prossimo.
Si chiama Jof, è un attore girovago ed ha una caratteristica molto particolare: ha delle visioni mistiche, o almeno dice di averne. Ad esempio, nella parte iniziale della narrazione, sceso di buon mattino dal carrozzone dive dorme con la sua famigliola, è testimone di una scena dolcissima e soave: la Vergine Maria, che con tenerezza infinita di madre regge il suo Bambino insegnandogli a camminare. Peccato che il povero Jof non sia creduto quando riferisce queste esperienze; la moglie stessa, con cui si confida in questa occasione, pur amandolo non può fare a meno di sorridere di quest’uomo che non è mai cresciuto veramente. Gli sviluppi della storia dimostreranno che Jof meritava ben altro credito, essendo egli l’unico che riesce a vedere il malinconico cavaliere intrattenersi con la lugubre figura della morte. Nonostante molte diversità, il saltimbanco creato dalla fantasia del grande maestro svedese ha per me qualche punto di contatto con un uomo che nel Medio Evo è vissuto realmente, Iacopone da Todi. Il quale in certe sue laude ci racconta le conseguenze delle sue estasi mistiche: pervaso da un’ardente dolcezza, vorrebbe raccontare al prossimo queste esperienze, ma tutto ciò che gli esce dalla bocca è un balbettio confuso, che lo fa apparire un ridicolo idiota agli occhi della gente:
O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.
Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.
Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.
È questo uno dei problemi del Medio Evo, epoca in cui non era raro che improvvisamente saltasse fuori qualcuno che asseriva di avere un rapporto privilegiato col cielo: costui (o, forse più spesso, costei) poteva non essere creduto, ed incorrere nella derisione altrui, o magari anche in conseguenze peggiori; oppure gli/le si credeva, e allora le conseguenze potevano essere clamorose. È un po’ anche questa la storia di Caterina Benincasa, nata a Siena il 25 marzo del 1347, mistica, santa, dottore della Chiesa e patrona d’Italia insieme a Francesco d’Assisi, altro personaggio scaturito dai dolci paesaggi collinari dell’Italia centrale e da quest’epoca così affascinante e così spesso reinterpretata a nostro piacimento da noi “moderni”. Non mi cimenterò nel cercare di ripercorrere le tappe dell’esistenza terrena di questa donna straordinaria: dirò solo che mediatore d’eccezione, per me come per molti altri, del fascino di Caterina è stato il professor Alessandro Barbero, docente ordinario di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, scrittore di alto livello (non solo nel settore della saggistica, ma anche in quella della narrativa) e divulgatore televisivo di rara simpatia ed efficacia. Più volte Barbero ha raccontato il romanzo della vita di Santa Caterina, nella trasmissione Rai “Il Tempo e la Storia”, ad esempio, oppure di fronte al pubblico del “Festival della Mente” di Sarzana. Ed è così che mi sono appassionato alle vicende di una donna che ha odiato il suo corpo, fino a lasciarsi morire di fame (ed uno dei saggi più interessanti che si possano leggere in merito è “La santa anoressia”, dell’americano Rudolph Bell, da noi pubblicato da Laterza), perché il corpo ha dei bisogni cui si deve obbedire, e Caterina odia dover obbedire a chiunque; è lei la ragazzina che annuncia da subito alla famiglia – tutt’altro che esultante – che non vorrà affatto pensare ad una vita normale, fatta di matrimonio e figli, e che, quando finalmente riesce a piegare la volontà del padre, ottiene di avere una celletta in stile monastico in casa, che poi – a pensarci bene, come dice Barbero – è la versione medievale di quello che Virginia Woolf definirò tanto più tardi “una stanza tutta per sé; è la mistica – ricorderò per concludere – che si guarda bene dal votarsi ad una vita eremitica ma si immerge pienamente nel vissuto della sua città e dei suoi tempi, guadagnandosi la fama di santa già in vita, tanto da poter parlare, per via epistolare soprattutto, con papi, regnanti e grandi feudatari, senza timori reverenziali di sorta, ammonendoli anzi – in primis riguardo alla questione del ritorno della sede pontificale da Avignone a Roma – come colei che ha un rapporto privilegiato con un potere infinitamente superiore al loro. Una donna del Medio Evo, che si è guadagnata uno spazio impensabile nella sua epoca per il suo sesso, ma che forse ha dovuto fare quello che ancora oggi deve fare ogni donna per far sentire la sua voce in un mondo dove il potere continua a parlare al maschile: essere eccezionale.
L’immagine che propongo è relativa a un dipinto di Domenico Beccafumi, “Santa Caterina da Siena riceve le stimmate tra i santi Benedetto e Girolamo” (1515), visibile nella Pinacoteca Nazionale di Siena.