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Un percorso il libertà, tra letteratura, storia e cinema, per una quarta classe del Liceo Scientifico.

Nell’episodio di Cimosco (canto IX dell’Orlando Furioso), l’Ariosto presenta un cavaliere fellone che è venuto in possesso di un archibugio di cui si serve per avere facilmente la meglio sugli avversari. Ma non ha fatto i conti con Orlando, che lo sconfigge comunque e che getta l’arma in alto mare, ritenendola un’invenzione diabolica.

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Presso la Galleria Estense di Modena è conservato un ritratto del duca Alfonso I d’Este, il signore al cui servizio passò l’Ariosto dopo la rottura dei rapporti con il cardinale Ippolito (fratello del duca). Si potrà notare che il signore è ritratto nelle vesti di un guerriero tutt’altro che insensibile alle novità della tecnologia bellica, dal momento che posa la mano fiducioso su un pezzo di artiglieria. Proprio uno di quegli ordigni che il poeta invece non amava affatto, ritenendoli colpevoli di compromettere l’onore stesso della cavalleria.

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La profezia di una catastrofe finale provocata dall’uomo nella pagina conclusiva della “Coscienza di Zeno”

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Il film di Charlie Chaplin “Il grande dittatore”

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Carl Gustav Jung, in una celebre intervista a una rivista americana definì Hitler “uno sciamano”. “Ebbene, il segreto di Hitler non è che egli abbia un inconscio con dentro più cose del suo o del mio. Il segreto di Hitler è duplice: primo, in lui l’inconscio ha accesso in maniera eccezionale alla coscienza, e, secondo, egli se ne lascia dirigere. Possiamo paragonare Hitler a un uomo che ascolta attentamente il torrente di consigli che gli vengono sussurrati da una fonte misteriosa e che poi “li mette in pratica”. Noi invece, anche se di tanto in tanto il nostro inconscio riesce a raggiungerci, per esempio attraverso i sogni, siamo troppo razionali, troppo cerebrali per ubbidirgli. Così è certamente nel caso di Chamberlain; Hitler invece ascolta e ubbidisce. La vera guida è sempre “guidata””.

Questo non significa che il celebre psichiatra volesse giustificare il dittatore, ma certo gli riconosce una capacità fascinatoria che pone capo del nazismo in una luce del tutto diversa da quella che Chaplin riserva ad Hynkel riducendolo ad un omino buffo e nevrastenico, sul quale viene esercitata un’ironia “gentile” ma non per questo scarsamente efficace.

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Il suggerimento di Guido da Montefeltro a Bonifacio VIII nel canto XXVII dell’Inferno dantesco

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Il capitolo del “Principe” sul rispetto della parola data

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Le considerazioni dell’Ariosto sull’avidità umana nella III satira

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Nella Satira in questione l’Ariosto afferma di avere nel cuore, come ogni uomo, una “sitibonda cerasta”, un serpente cioè, simbolo dell’avidità; solo non alimentando l’immonda bestia si può evitare che essa prenda il sopravvento. Meglio quindi aver ricevuto ben poco dal papa Leone X, che pure aveva fatto grandi promesse al suo amico, in nome della loro antica amicizia. Nell’occasione l’Ariosto cita questa figura affrescata da Michelangelo sulla volta della Sistina pochi anni prima della pubblicazione della Satira. Si tratta del profeta Giona, che da sopra l’altare può contemplare la ricchezza dei paramenti di tanti altri prelati. Il poeta però è contento di non aver avuto la possibilità di condividere i loro sfarzi: forse sarebbe diventato un uomo peggiore, anche se ben più agiato di quello che è.

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L’invito ad aiuto reciproco tra tutte le nazioni nella “Ginestra” leopardiana

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“Macno” di De Carlo e la prefigurazione dell’avvento dell’antipolitica nell’Italia degli anni ’90 e seguenti

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L’apologo satirico di Kubrick contro il delirio nucleare delle superpotenze dell’età della guerra fredda

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Pochi film sono entrati nell’immaginario collettivo degli italiani quanto “Il sorpasso” di Dino Risi (1962). Reso indimenticabile dall’interpretazione di Vittorio Gassman (ma non vanno dimenticati i giovani coprotagonisti Jean-Louis Trintignant e Catherine Spaak), è un’opera che esprime pienamente – nel bene e nel male – lo spirito dell’epoca del boom economico, offrendo anche la possibilità di operare dei collegamenti con testi letterari degli stessi anni, quali “La vita agra” di Bianciardi e “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi. Tra le sequenze più interessanti a livello sociologico, da citare quella in cui Bruno fa conoscere a Roberto la sua famiglia, ovvero la moglie e la figlia: da una parte notiamo il fatto che in Italia in quel periodo non ancora una legge sul divorzio (Gassman e la sua consorte sono separati solo di fatto, né hanno fatto ricorso alla possibilità di annullamento del Tribunale della Sacra Rota); dall’altra, i tempi stanno cambiando, e non appare esclusa la possibilità che – almeno in certi ambienti piuttosto disinvolti – una ragazza decida liberamente di frequentare come fidanzato un uomo decisamente più anziano, senza subire alcuna costrizione di carattere familiare. Naturalmente resta impresso in ogni spettatore il tragico finale, che contraddice le regole della separazione dei generi, ancora in quell’epoca generalmente rispettata in ambito cinematografico.

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A partire dai primi decenni dell’Ottocento la Russia comincia a sviluppare una letteratura di straordinario interesse, grazie ad autori quali Puškin e Gogol’, per poi arrivare poco più tardi a vertici assoluti grazie all’inarrivabile coppia formata da Tolstoj e da Dostoevskij, che secondo il critico Nikolaj Berdjaev rappresentano l’incarnazione dello spirito apollineo l’uno e del dionisiaco l’altro. Anche nel Novecento, mentre in campo storico-politico si impone il gigantesco fenomeno della rivoluzione bolscevica, grandi scrittori russi continuano a rappresentare l’anima del loro popolo e a narrare i drammatici rivolgimenti del tempo: citiamo soltanto, senza entrare per il momento nel dettaglio, personaggi di estremo interesse come Bulgakov (“Il Maestro e Margherita”, un capolavoro immenso); Pasternak (“Il dottor Živago” che fu premiato con il Nobel e dal quale fu ricavato un celebre film); Grossman (“Vita e destino”, che è stato riscoperto in Italia pochi anni fa grazie a una nuova traduzione per la casa editrice Adelphi); ed infine Aleksandr Isaevič Solženicyn, che conobbe una grandissima popolarità in Europa nei primi anni Settanta per i suoi testi che provocarono una notevole sensibilizzazione verso il dramma della negazione dei diritti umani in Urss. Grazie a questo scrittore il termine “gulag” è divenuto assai noto come sinonimo di campo di detenzione per prigionieri politici, e non pochi intellettuali di sinistra hanno iniziato a riflettere con maggiore consapevolezza sul dramma dei dissidenti. In virtù della forza narrativa di opere come “Una giornata di Ivan Denisovič” e “Arcipelago Gulag”, in cui venivano denunciate le condizioni assolutamente disumane in cui venivano tenuti i deportati, Solženicyn ottenne il premio Nobel nel 1970, ma poté recarsi a ritirarlo a Stoccolma solo in seguito alla sua espulsione dalla madrepatria, nel 1974.

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Uno dei film più affascinanti e suggestivi degli ultimi anni, “Into the wild” di Sean Penn, può fornire numerosi spunti di riflessione sulle contraddizioni della società in cui viviamo, ma è anche ricco di citazioni letterarie. Interessante, ad esempio, il frammento poetico tratto dall’opera del grande romantico inglese di inizio Ottocento, Lord Byron; ovvio poi che vengano in mente allo spettatore diversi scrittori americani che hanno preso in considerazione – ognuno a suo modo – il tema della ribellione e la possibilità di una vita diversa a contatto con la natura, da Mark Twain a Jack London, da Hemingway a Salinger, senza scordare il Thoreau di “Walden, o la vita nei boschi”. Ma potremmo citare ancora, per motivi tutti da approfondire, D’Annunzio, Pirandello, e il grande portabandiera del vitalismo e dell’irrazionalismo di fine Ottocento, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Di questo pensatore riportiamo una frase molto significativa, tratta dal suo saggio “Sull’utilità e sul danno della storia per la vita”: “Al confronto dell’animale, l’uomo si vanta della sua umanità, e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello, giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. Propria della vita animale è la felicità, che è sempre legata all’istante presente, mentre l’uomo è spesso in preda alla noia e alla tristezza, perché non è mai in rapporto immediato con la vita e con il presente, ma è condannato in qualche misura a riflettere costantemente sulla vita. L’uomo non può essere felice proprio perché non mira che a essere felice, ed è questo valore intenzionale a distinguerlo dall’animale, che non parla della sua felicità. Il parlare della felicità è il segno che non si ha un rapporto immediato con la vita.

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Di particolare utilità, per approfondire i temi legati al film, può essere la conoscenza di alcuni aspetti di un saggio di Sigmund Freud dal titolo emblematico, “Il disagio della civiltà”, di cui riportiamo un breve aforisma: “La libertà non è un beneficio della cultura: era più grande prima di qualsiasi cultura, e ha subito restrizioni con l’evolversi della civiltà”. Nell’immagine, i ritratti accostati dei due grandi pensatori, morti il primo nel 1900, il secondo trentanove anni dopo.

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Nel 1953 il regista americano di origini polacche Joseph L. Mankiewicz realizza un film tratto dal “Julius Ceasar” shakespeariano. Si tratta del dramma incentrato sull’assassinio del grande condottiero romano, seguito dal celebre discorso di Marco Antonio (“Friends, Romans, countrymen, lend me your ears; I come to bury Caesar, not to praise him”) per mezzo del quale il luogotenente di Cesare riesce a portare dalla sua parte la plebe, che poco prima aveva inneggiato a Bruto, cui veniva riconosciuto il merito di aver liberato l’Urbe da un tiranno. La parte di Antonio è interpretata da uno dei più celebri (e controversi) attori americani della seconda metà del ‘900, che proprio all’inizio degli anni Cinquanta si stava affermando come icona trasgressiva e ribelle, dal forte richiamo sessuale (paragonabile perciò a Elvis Presley), in film come “Un tram che si chiama Desiderio”, “Il ribelle”, “Fronte del porto”.

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La parte di Antonio è interpretata da uno dei più celebri (e controversi) attori americani della seconda metà del ‘900, che proprio all’inizio degli anni Cinquanta si stava affermando come icona trasgressiva e ribelle, dal forte richiamo sessuale (paragonabile perciò a Elvis Presley), in film come “Un tram che si chiama Desiderio”, “Il ribelle”, “Fronte del porto”. Più tardi l’attore avrebbe continuato a far parlare di sé per i comportamenti discutibili, per le posizioni politiche poco in sintonia con la tipica visione del mondo americana (si schierò con la causa dei nativi americani, vittime di crimini contro l’umanità da parte dei coloni bianchi e diede il suo sostegno a varie battaglie civili che caratterizzarono gli anni ’60); ma nel contempo riaffermò più volte le sue notevoli doti attoriali, distinguendosi in film come “Il Padrino”, “Ultimo tango a Parigi” e “Apocalypse now”).

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La scuola ha il dovere di promuovere tra gli studenti la consapevolezza dei fatti di storia contemporanea che sono entrati nell’immaginario collettivo e hanno segnato in modo profondo le coscienze di molti cittadini italiani che hanno vissuto i decenni passati. Tra tali vicende assume un rilievo di primaria importanza il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, per realizzare i quali le Brigate Rosse uccisero anche cinque agenti di pubblica sicurezza che costituivano la scorta dell’uomo politico.

In un’Italia segnata, a partire dalla fine degli anni ’60 del Novecento, da una sempre più dura contrapposizione tra schieramenti extra-parlamentari di estrema destra e di estrema sinistra, le Brigate Rosse assunsero un ruolo primario, proponendosi come “partito armato”, con l’intento di guadagnare consensi tra gli studenti e gli operai del nostro paese, in vista del tentativo di attuare una rivoluzione di stampo marxista-leninista.

Le azioni violente di tale gruppo terroristico si fecero sempre più dure e frequenti, e raggiunsero il culmine con il rapimento suddetto, avvenuto il 16 marzo del 1978. Moro era il presidente della Democrazia Cristiana, il partito che fin dai primi anni della nostra storia repubblicana aveva sempre raccolto il più alto numero di consensi tra gli elettori, guidando sempre i governi, spesso con l’appoggio di altri partiti, moderati e di sinistra, ma sempre in contrapposizione al Partito Comunista Italiano. Moro si era distinto proprio per il tentativo di dialogare con i partiti di sinistra, prima con il Partito Socialista e poi con lo stesso PCI. Era il cosiddetto “compromesso storico” tra due forze di peso quasi uguale, ma di ispirazione ideologica molto diversa. Proprio questo sforzo “diplomatico” fece di Moro la vittima predestinata del terrorismo dei brigatisti, decisamente ostili all’idea della partecipazione del PCI a governi con la DC.

Le BR rapirono Moro nella speranza di poter ottenere, in cambio della salvezza dell’ostaggio,la liberazione di loro membri che erano stati condannati e incarcerati per i loro crimini. Questo fatto avrebbe rappresentato il riconoscimento politico dell’organizzazione terroristica, ma la risposta del governo (guidato da Giulio Andreotti), della DC e di quasi tutto il mondo politico italiano fu negativa. Si scelse un “no” deciso a qualunque trattativa, pur nella consapevolezza che ciò avrebbe portato alla morte di Moro. Solo il PSI guidato da Bettino Craxi e il Partito Radicale di Marco Pannella si mostrarono aperti ad una linea diversa da quella della “fermezza”, ma non ci fu nulla da fare: il cadavere di Moro fu fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani, nel pieno centro della capitale. Una collocazione dal forte valore simbolico, visto che questa strada si trova tra Piazza del Gesù, dove aveva sede la DC, e via della Botteghe Oscure, caratterizzata dalla presenza degli uffici del PCI.

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Il “caso Moro” ha poi naturalmente dato luogo ad una vasta produzione editoriale e cinematografica volta a informare e a far riflettere l’opinione pubblica su un episodio così traumatico e tutt’altro che priva di aspetti ancora poco chiari o addirittura inquietanti. In molti infatti hanno ipotizzato che l’uomo politico non fosse molto amato da diversi alti esponenti del suo partito, e che la sua scomparsa potesse tornare utile agli Stati Uniti, impegnati da decenni nella tutela  – da realizzare con ogni metodo – dell’alleanza con l’Italia, fondamentale negli equilibri geopolitici di un’epoca dominata dalla contrapposizione tra il capitalismo occidentale e il comunismo sovietico. Quindi è sorta l’idea che le Brigate Rosse fossero sostanzialmente eterodirette da una qualche entità esterna, che avrebbe indirizzato i terroristi verso il sequestro e l’eliminazione di uno statista “scomodo” perché favorevole al dialogo con il PCI. Si tratta di supposizioni estremamente complesse su cui – ripetiamo – in molti si sono esercitati, ma che probabilmente non potranno mai essere dimostrate. In questo ambito – naturalmente suggestivo dal punto di vista romanzesco – si è mosso il regista Renzo Martinelli con il suo film “Piazza delle Cinque Lune” del 2003, interpretato – tra gli altri – da Giancarlo Giannini e Donald Sutherland.

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In quest’opera appare accreditata la tesi secondo cui apparati deviati dei servizi segreti italiani e americani avrebbero tramato per evitare che il rapimento di Moro potesse concludersi con la liberazione dell’ostaggio. C’è però da dire che ipotesi di questo tipo sono state sempre smentite in modo deciso da chi, nell’ambito delle BR, gestì il sequestro. A questo proposito va ricordato il libro dell’ex terrorista Anna Laura Braghetti che, in collaborazione con la giornalista Paola Tavella, ha scritto un resoconto molto preciso della vicenda, cui partecipò in prima persona, avendo vissuto nell’appartamento di Via Montalcini a Roma, dove Moro visse gli ultimi 55 giorni della sua vita. Il titolo del volume è “Il prigioniero”, e da esso il regista Marco Bellocchio ha liberamente tratto, nel 2003, un film di alto livello artistico, “Buongiorno, notte” che si conclude con un’invenzione poetica molto suggestiva, in base alla quale lo statista (interpretato da Roberto Herlitzka) viene lasciato libero di andar via dalla brigatista cui è stato affidato (l’attrice Maya Sansa).

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