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Dover partire dal Medio Evo non è un limite, ma una grande opportunità per progettare un percorso culturale stimolante che non esclude frequenti incursioni nella modernità.

E dunque, il Medio Evo. Facendo ricorso ad una periodizzazione convenzionale classica, sappiamo bene come tale lunghissima epoca arrivi fino al 1492, anno della scoperta dell’America. Poi abbiamo l’età moderna, fino alla Rivoluzione Francese, ed infine l’età contemporanea, che comprende l’Ottocento, il Novecento, nonché questi anni di inizio millennio che stiamo vivendo.

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Si è detto che il Medio Evo sia quell’epoca nella quale l’uomo si sente in tutto e per tutto dipendente da Dio; successivamente, assistiamo a una fase in cui il singolo si rende indipendente dalla divinità; mentre nell’ultima fase a cercare l’emancipazione sono i popoli: sia quelli che subiscono domini da parte di potenze esterne (si pensi all’Italia e al suo Risorgimento), sia quelli che continuano a cercare di reagire all’assolutismo, riaffermatosi almeno in parte dopo la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna.

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Secondo talune tesi, precursori dello spirito di indipendenza tipico dell’età umanistico-rinascimentale e della modernità in genere non mancherebbero già nel tardo Medio Evo. Sono stati fatti i nomi dell’imperatore Federico II (che più di altri suoi predecessori ha effettivamente esaltato la componente laica del suo potere, contrapponendosi in modo deciso al Papato); e poi quello dei due grandi poeti della prima fase della letteratura italiana, Dante e Petrarca. Se quest’ultimo non ci stupisce più di tanto, dal momento che il poeta del “Canzoniere” è spesso citato per la sua modernità (ed anche perché sembra quasi anteporre la donna amata, Laura, a Dio stesso), diverso è il discorso per l’Alighieri. Da una parte sappiamo benissimo che la “Commedia” – con le sue certezze e con la fede profonda che trova in essa espressione – può rappresentare la quintessenza della cultura e dello spirito del Medio Evo; dall’altra però non si può dimenticare che il gigante fiorentino dà costantemente prova, nel suo poema, di una fortissima personalità, e che – a rigore – si sostituisce a Dio stesso nel punire i peccatori e nel premiare coloro che ritiene degni di misericordia e di salvezza.

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Questa tendenza all’autonomia da parte dell’uomo di genio trova piena espressione nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento: obbligatorio citare Machiavelli con la sua nuova visione laica della politica, e poi nell’arte abbiamo Michelangelo, che nella Sistina propone un’operazione non dissimile da quella citata prima a proposito di Dante e della sua “Commedia”: in estrema sintesi fa le veci di Dio stesso, creando, ordinando e giudicando. Non sono affatto necessarie, per questo dichiarazioni di ateismo, anzi queste grandiose realizzazioni sembrano voler contribuire alla “maggior gloria di Dio”, ma non possiamo negare l’importanza che in esse ha l’orgoglio del singolo d’eccezione, che si sente grande per le sue capacità e per l’aura leggendaria che cresce intorno al proprio nome.

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Questa volontà di indipendenza viene confermata pienamente in quell’opera fondamentale che apre il Seicento e la vera e completa modernità che è il dramma “Amleto” di William Shakespeare. Il principe danese – per quello che possiamo ricordare – è il primo personaggio letterario occidentale che si trova a tu per tu con un fantasma e rimane scettico di fronte al messaggio che proviene dall’aldilà: potrà credere, sì, nella denuncia paterna, ma solo se troverà conferme grazie ad una sua indagine personale, condotta all’insegna della razionalità esercitata con freddezza. D’altra parte, non credere senza prove è proprio – secondo Massimo Cacciari, uno dei più prestigiosi intellettuali italiani – l’essenza stessa della predisposizione filosofica della Grecia antica, base del sapere dell’intero Occidente. Si potrebbe obiettare che è Amleto stesso a sminuire tale disciplina in una delle più proverbiali battute del dramma: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia” (There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy”). Ma l’obiezione è facilmente superabile se si pensa che l’insegnamento universitario dell’epoca (che vari giovani personaggi della tragedia hanno ben presente) era in buona parte basato sul cosiddetto “ipse dixit”, che ancora una volta comporterebbe quella rinuncia al libero esercizio dell’intelletto che nella modernità appare invece fondamentale ed insostituibile.

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Tornando all’Alto Medio Evo, Adalberone di Laon lascia intendere che la divisione della società in tre categorie di uomini (guerrieri, ecclesiastici e contadini) non sia casuale, ma legata alla triplice personalità di Dio stesso; dunque, anche se i pesi non sono distribuiti equamente (i contadini faticano duramente per tutti ricevendo ben poco in cambio), non è prevista alcuna riforma, né alterazioni della situazione esistente. Il testo in cui è contenuta questa tesi (il “Carmen ad Robertum regem”) risulta inoltre assai utile per comprendere cosa si intende quando si afferma che nel Medio Evo l’uomo non è libero rispetto all’autorità divina (o a chi la esercita in suo nome): Adalberone infatti nega quello che poi diventerà un caposaldo dell’Umanesimo e del Rinascimento, e cioè che l’uomo sia “padrone del proprio destino”, e questo non perché le contingenze casuali abbiano il sopravvento su di lui, ma perché prevale un superiore volere che tutto ha ordinato per fini indiscutibilmente buoni.

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Passano circa tre secoli e lo spirito tipicamente medievale non sembra attenuarsi. Nel “Dies irae” un anonimo autore (tradizionalmente identificato con Tommaso da Celano) . oltre ad offrire un ottimo esempio di sincretismo tra cultura classica e spiritualità cristiana (“ teste David cum Sybilla”) – prospetta il terrore del giudizio finale, con lo scoperchiarsi delle tombe ed il rischio assai concreto della dannazione, ma non cessa di pregare affinché Cristo giudice si dimostri misericordioso.

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Jacopone da Todi, divenuto frate francescano, scrive componimenti poetici religiosi (le “laude”) in cui alterna il tentativo impossibile di raccontare la gioia incontenibile dello slancio mistico verso Dio (“O iubelo del core”) a momenti di estrema durezza verso le alte gerarchie ecclesiastiche  (Celestino V e Bonifacio VIII) ma ancor più verso se stesso (“O Segnor per cortesia / manname la malsania”).

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Molte antologie scolastiche riportano il racconto edificante di Jacopo Passavanti cui viene dato il titolo “Il carbonaio di Niversa”. Nel breve testo, tratto dallo “Specchio di vera penitenza”, si narra l’inquietante storia di due adulteri che -post mortem –  sono condannati a espiare la loro colpa replicando costantemente una “caccia infernale” dal tipico sapore medievale. In realtà la donna si è anche macchiata dell’assassinio del marito, proprio per potersi più liberamente abbandonare alla passione; e quindi si potrebbe adattare alla coppia punita la definizione di “amanti diabolici”, cara al linguaggio della cronaca nera odierna.

Ma questo può farci venire in mente un’altra vicenda letteraria con qualche punto in comune, benché scritta all’incirca cinquecento anni più tardi: si tratta del primo romanzo di successo di Émile Zola, “Teresa Raquin”, del 1867. Anche qui tutto ruota intorno ad un adulterio con omicidio, ma trattandosi di quello che l’autore stesso definisce “uno studio psicologico e fisiologico” la componente soprannaturale resta esclusa dallo sviluppo della vicenda. Le immagini che accompagniamo a queste note sono tratte da una recente messa in scena dell’opera del narratore francese presentata a New York: in questo caso la giovane donna del titolo è impersonata dall’attrice inglese Keira Knightley, famosa per film quali “Sognando Beckham”, “Orgoglio e pregiudizio” e “Anna Karenina” (che fra l’altro è ancora la storia di una moglie adultera, con suicidio però, e non accompagnata da un assassinio).

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Thérèse Raquin Studio 54 Cast List: Keira Knightley Gabriel Ebert Judith Light Matt Ryan Production Credits: Evan Cabnet (director) Beowulf Boritt (scenic design) Jane Greenwood (costume design) Keith Parnham (lighting design) Josh Schmidt (sound design) Other Credits: Written by: Adapted by Helen Edmundson, based on the novel by Emile Zola - See more at: http://www.playbill.com/events/event_detail/thrse-raquin-at-studio-54-334781#sthash.yE6tnZAI.dpuf

Molti aspetti dello spirito e della cultura del Medio Evo – con sfumature che vanno dal nero più cupo a qualche serena nota di speranza – sono stati colti, in pieno Novecento, da uno dei più prestigiosi registi della storia del cinema: Ingmar Bergman, che nel 1957 firma “Il settimo sigillo”.

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L’immagine delle foglie secche che si staccano ad una ad una dall’albero è da sempre un’immagine della sorte ineluttabile dell’uomo. Foscolo disse di Omero “a costui fu assai di cogliere la verginità di tutte le Muse”. Mimnermo di Colofone visse la sua maturità poco dopo la metà del 600 a. C.; se si pensa che l’Iliade è datata tradizionalmente al 750 a. C., si può certo affermare che il celebre componimento mirabilmente tradotto da Quasimodo (“Al modo delle foglie”) appartiene ad un’epoca pressoché aurorale della lirica occidentale e questo, insieme all’iinnegabile suggestione dei versi, è motivo sufficiente a garantire fama universale alla similitudine in questione e al suo autore.

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Oggi è tutt’altro che raro che intellettuali e narratori di vaglia esprimano la loro passione per il calcio sottolineandone la valenza di grande metafora della vita. Ma quando Umberto Saba scrisse la sua “Goal” si trattò di una scelta assolutamente fuori dal comune, ed una proposta simile poteva venire solo da questo poeta triestino così anticonvenzionale e nello stesso tempo predestinato alla classicità. Ogni verso contiene una suggestione speciale, ma forse su tutto si staglia l’immagine finale del portiere della squadra che ha segnato, felice e al contempo un po’ preoccupato di sentirsi escluso dall’esultanza; come un poeta della modernità, sempre almeno in parte emarginato dalla società.

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Voce minore (se paragonata a quelle dei grandi personaggi consacrati dalle antologie scolastiche) ma ugualmente ricca di suggestioni quella del poeta ligure Camillo Sbarbaro. In un breve componimento intitolato “L’ultimo grappolo” parte da un delicato episodio agreste per offrirci un’immagine serenamente malinconica della vita umana, che sembra riprendere la saggezza dei lirici greci e il pessimismo leopardiano.

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