Vita-agra

IL TRAFFICO ED IL CONSUMISMO NELLA MILANO DEL BOOM

 

da La vita agra di Luciano Bianciardi

 

Appena fuori c’è il traffico che mi investe. Io potrei dire senza calendario che giorno è, proprio dal traffico. Rabbiosi sempre, il lunedì la loro ira è alacre e scattante, stanca e inviperita il sabato. La domenica non li vedi, li senti però, dentro le case, indaffarati coi rubinetti, le vasche da bagno, gli shampoo, i bidet, a sciacquarsi sopra e sotto, specialmente le donne, a rifarsi la testa, le labbra e gli occhi.

Poi, dopo la messa, rieccoli in branco, stimolati dal digiuno, accecati dalla santità della cerimonia, drogati dalla prospettiva del relax, che si avventano al bar per la pastarella, l’aperitivo, e se hai con te un bambino te lo pestano, te lo fanno piangere. Dal bar vanno all’edicola e comprano anche tre, quattro giornali illustrati, spingendosi di lato coi gomiti, perché alla mezza devono andare in tavola e hanno premura.

Il traffico astioso delle auto, la domenica comincia nel primo pomeriggio, perché vanno sempre in branco alla partita. Gli altri giorni sono pericolosi, e chi ha un bambino fa bene a mettergli in testa la paura del traffico, e dirgli attento nini, la macchina ti schiaccia, dai la mano a mamma. Come se fossero lupi, le automobili.

Ma anche i grandi debbono starci attenti, se sono pedoni senza la mutua, perché se finisci sotto sei fregato. Se finisci sotto fuori delle strisce, loro non hanno da pagarti una lira, anzi sei tu che gli paghi il danno eventuale, il vetro del finestrino rotto, lo sporco del sangue sui sedili, un’ammaccatura al cofano, l’incomodo, il tempo perso, perché loro hanno sì l’obbligo di non omettere il soccorso, ma poi te lo fanno scontare, tanta benzina dal punto del sinistro all’ospedale, tanto dall’ospedale al punto dove avevano la commissione, un appuntamento mancato, un affare andato a monte per colpa tua. Loro hanno gli avvocatoni, e tu sei solo. Lo paghi anche se finisci sotto al passaggio zebrato, perché nell’urto è quasi sicuro che tu vai a cadere più in là delle strisce, e loro possono sempre dire, e dimostrare con gli avvocatoni delle assicurazioni, che è stato fuori, l’investimento. Conviene traversare sulle strisce, ma tenendoti al margine più vicino alla parte da dove arriva il traffico, così sei un poco più sicuro di cadere nel passaggio, e i danni te li pagano, anche se penalmente non gli costa più di un quattro mesi con la condizionale.

E al bimbo, se c’è l’hai mettigli bene in testa la favola del lupo automobile, anche a costo di far diventare lupo lui, che desideri la macchina per schiacciare gli altri, da grande.

Ci sono due passaggi zebrati, dalla porta di casa mia all’edicola dei giornali, e finora ce l’ho fatta senza danno, solo qualche insulto dai guidatori costretti a rallentare, specialmente quelli civili, quelli consapevoli del proprio dovere, che si bloccano davanti alle strisce e con la manina rabbiosa ti fanno segno di passare e intanto borbottano: – ‘sto pirla! -.[…]

Dal portone di casa mia all’edicola, dicevo, ci sono due passaggi zebrati pericolosi. Ogni mattina in piazza c’è l’incidente stradale, due auto ferme muso contro muso, i guidatori in piedi a urlare, se uno non è già morto, e un capannello di gente sul marciapiede che sta a guardare. Intanto sono arrivati gli operai col piccone e scavano la fossa. Scamiciati, col muso duro e rossiccio, danno di piccone sull’asfalto, e se poi la massicciata è troppo dura, arrivano altri col martello perforatore, ci premono sopra con tutto il corpo e vibrano dai piedi alla testa; vibra anche l’aria intorno a loro.

Aperta la buca, se ne vanno. Il giorno dopo altri operai provvedono a rimettere a posto la terra scavata, che risulta sempre troppa e fa montarozzo, sicché bisogna far venire il rullo compressore a schiacciarla, e poi un’altra macchina a stendere altro asfalto, bitume e ghiaino. Gli scavatori i9ntanto si sono spostati un poco più in là, sempre sul marciapiede, e scavano una fossa nuova, che sarà riempita puntualmente il giorno dopo.

Nessuno ha mai saputo perché facciano queste fosse. Non è che poi ci sotterrino i morti del settimanale incidente d’auto gravissimo, ad ammonimento per gli incauti, e nemmeno vanno a cerca di reliquie, di ruderi, di tartufi, di minerali. Sotto l’asfalto, sotto la massicciata, trovano terra e soltanto terra, da rimettere in sito ogni volta, eppure scavano, e la gente non protesta per l’incomodo, né per il fragore dei martelli vibratili. La gente protesta semmai se nella casa di fronte tengono il grammofono troppo alto e arrivano a cascata le note di Vivaldi.

Per i rumori lavorativi c’è rispetto sommo, invece, e in quel dissennato scavare tutti vedono il segno del progresso. Anche perché non hanno scordato di quando, tre anni or sono, vennero in piazza con le macchine pesanti e aprirono una buca vasta come un cratere, che si riempì subito dell’acqua d’una fogna sfiancata, e ci galleggiavano tavoloni, carriole, gatti morti. Non s’era mai visto nella zona scavo più grande e più drammatico, e tutti stavano a guardare con ammirazione, fino al giorno in cui riempirono il cratere e ci misero sopra, a coperchio, una tettoia di plastica azzurra, tutta a guglie puntute come una pagoda. Che cosa ci sia sotto nessuno l’ha mai capito bene, ma intanto, dicono, ci ha lavorato un branco di gente, e come si sa il lavoro fa circolare la grana, l’operaio spende i danè e se ne avvantaggiano tutti.

Per motivi di ricerca sociologica, ho provato anch’io, una volta, a mettermi panni dimessi, camicia senza colletto, calzoni turchini sporchi di calce, la barba lunga e i capelli arruffati. Ho provato, in questa tenuta, e munito di piccone, paline bianche e rosse a strisce e lanternino cieco per la notte – scelto un altro quartiere perché qui ormai mi conoscono – ho provato a scavare uno spicchio di strada, e poi a lasciarci la buca. Nessuno me lo ha vietato, e anzi il giorno dopo c’erano operai a disfare il mio lavoro, a riempire la mia buca, guidati da un geometra in camicia bianca ma senza cravatta, serio. – Che lavori sono? – chiesi, e lui fece un gesto vago, senza rispondere. Mi pagarono anche la giornata quando mi presentai all’ufficio tecnico comunale, poco ma me la pagarono, e io conservo il mandato e posso anche esibirlo a richiesta, se qualcuno non ci crede.

Il doppio passaggio zebrato – viale e controviale – è pericoloso anche per via delle macchine che vengono da lontano a fare la spesa nel bottegone  nuovo, che occupa quasi tutto il pianterreno di casa mia. Le macchine arrivano di continuo, arronzano il marciapiede, si bloccano con stridore di freni, proprio dinanzi allo stretto varco fra la fossa dei picconatori e il passaggio zebrato, ne scendono uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone.

Il bottegone è una stanza enorme senza finestre, con le luci giallastre sempre accese a illuminare le cataste di scatole colorate. Dal soffitto cola una musica calcolata per l’effetto ipnotici, appesi al muro ci sono specchi tondi ad angolazione variabile e uno specialista, chiuso chissà dove, controlla che la gente si muova, compri e non rubi.

Entrando, ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merci, di prodotti. Vendono e comprano ogni cosa; gli emitori hanno la pupilla dilatata, per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono, a tratti ti sbattono il carrettino sui lombi, e con gesti da macumbati raccattano scatole dalle cataste e le lasciano cadere  nell’apposito scomparto. Nessuno ti dice una parola, tanto il discorso sarebbe coperto dalla musica e dal continuo scaracchiare delle calcolatrici.

Il bancone giù in fondo è quello delle carni. Dietro c’è una squadra di macellai e macellaie che spartono terga di bove, le affettano, le piazzano sul vassoino di cartone, le involgono nel cellofan e poi richiudono con un saldatore elettrico. Davanti al bancone sostano le donnette, ognuna ha in mano un vassoino di carne e lo guarda senza vederlo, lo tasta, lo rimette al posto suo, e avanti. Nelle ore di punta il vassoino non fa nemmeno più in tempo a ritornare sul bancone: appena visto e tastato, passa in mano a un’altra donna, percorre tutta la fila delle donnette chine come tanti polli a beccare in un pollaio modello. Poi ritorna indietro.

Sarebbe una grossa perdita di tempo, e di guadagno, ma ci sono degli specialisti in borghese che, alle spalle delle donnette ipnotizzate, provvedono di soppiatto a colmare fino al dovuto il carretto in attesa, oppure a spostarlo, in modo che i più solerti, sbagliandosi, stivino di merce anche il veicolo dei più tardivi, e tutti alla fine abbiano comprato pressappoco la stessa roba, e nella stessa quantità.

Continua la musica ipnotica e quando la gente è arrivata alla cassa, ormai paga automaticamente tutto quello che si ritrova a trascinare nel carretto. Gli emitori con automobile spesso prendono due carretti a testa e non se ne vanno finché non li abbiano visti ben pieni.

La fila delle cassiere è sempre attiva ai calcolatori, e le dita saltabeccano di continuo sui tasti, come cavallette impazzite. In testa hanno un berrettino azzurro con il nome del bottegone, non battono palpebra, fissano i numerini con le pupille dilatate, e ogni giorno hanno il visino più smunto, le occhiaie più bluastre, il colorito più terreo, il collo più vizzo, come tante tartarughette.

Ci sono anche dei giovinastri neri e meridionali, con scatole e appositi portacarichi, i quali trascinano fino alle auto la caterva degli acquisti, dodici bottiglie di acqua gazzosa, dieci pacchetti di gallettine, olive verdi col nocciolo e senza, gli assorbenti igienici per la signora, perché tanto anche ‘sto mese ci sono stati attenti, un osso di plastica per il barboncino, venti barattoli di pomodori (anzi di pomidoro, dicono), un pelapatate americano brevettato, che si adopera anche con la sinistra, i grissini, gli sfilatini, i salatini, gli stecchini, i moscardini e i tovagliolini di carta con le figure a fantasia, tanto spiritosi, tanto divertenti.

Io lo dico sempre, metteteci una catasta di libri, e accecati come sono comprerebbero anche quelli. Ho letto su un giornale specializzato che questo è l’agorà, il forum, la piazza dei nostri tempi, e forse è vero. Però non mi scordo che alla Svolta del Francese c’era già tutto questo, e anche di più. Mi ricordo che il vecchio Lenzerini, al suo bottegone di Scarlino Scalo, teneva tutta questa roba e altra ancora, anche i cappelli teneva, i vasi da notte, il baccalà a mollo e i lumi a carburo. Ti preparava anche un cantuccio di pane col salame, il Lenzerini. Bastava chiederglielo, e intanto ti raccontava di quando suo nonno accompagnò Garibaldi a casa Guelfi, e lo vide riposarsi sotto il quercione, in vista di Cala Martina. Era con lui un bel giovane che si faceva chiamare il capitano Leggero, ma di certo doveva essere un nome finto.

-Professore, lasci stare, pagherà quest’altr’anno. – Davanti al bottegone c’è uno spiazzo dove razzolano le galline, e niente passaggio zebrato. Qui invece è doppio, viale e controviale, dal cancello di casa mia fino all’edicola dei giornali.

 

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