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“Vicini”, di Anton Cechov

Petr Michaijlyc Ivasin era di pessimo umore: sua sorella, una ragazza, s’era trasferita da Vlasic, uomo sposato. Per sollevarsi in qualche modo dallo stato d’animo greve, depresso che non lo abbandonava né a casa né in campagna, chiamava in suo aiuto il senso di giustizia, le sue vedute oneste, positive (era pur sempre per l’amore libero!), ma non serviva, e senza rendersene conto arrivava ogni volta alla conclusione della stupida balia, ossia che sua sorella s’era comportata male, e che Vlasic aveva rapito sua sorella. Ed era un tormento.

Sua madre non usciva dalla sua camera per tutto il giorno, la balia parlava in un sussurro e non faceva che sospirare, la zia era ogni giorno in partenza, e ora portavano le sue valigie in anticamera, ora le riportavano in camera. In casa, in cortile, in giardino c’era un silenzio da far sembrare che ci fosse un morto in casa. La zia, la servitù e persino i muziki, così sembrava a Petr Michaijlyc, lo guardavano enigmatici e anzi perplessi, quasi volessero dire: “Hanno sedotto tua sorella, cosa te ne stai senza fare niente?”. E si rimproverava senza fare niente, anche se non sapeva di preciso in cosa consistesse il fare. […]

Aveva solo ventisette anni, ma era già grasso, si vestiva da vecchietto in abiti larghi e ampi e a volte gli mancava il fiato. In embrione aveva già tutte le caratteristiche del vecchio proprietario scapolo. Non si innamorava, al matrimonio non pensava e voleva bene solo alla madre, alla sorella, alla balia e al giardiniere. Gli piaceva mangiare bene, fare un riposino dopo pranzo, discutere di politica e di argomenti elevati… A suo tempo si era laureato all’università, ma ora gli sembrava di aver prestato un servizio obbligatorio per i giovani di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni; perlomeno le idee che ora ogni giorno gli frullavano per la testa non avevano nulla a che vedere con l’università e con le discipline che aveva studiato. […]

Per i campi era calmo e tranquillo come prima della pioggia. Nel bosco era afoso e si diffondeva un odore greve, fragrante di pini e di foglie putrefatte. Petr Michaijlyc si fermava spesso e si asciugava la fronte bagnata. Esaminò le colture vernine e primaverili, attraversò il campo di trifoglio e un paio di volte cacciò dal suo cammino una pernice con i pulcini; e per tutto il tempo pensava che questo umore insopportabile non può durare in eterno e che in una maniera o nell’altra bisogna farlo finire. Farlo finire in modo sciocco, barbaro, ma farlo finire senz’altro.

“Ma come, che fare?” si domandava, e lanciava occhiate supplichevoli al cielo e agli alberi, come chiedendo loro aiuto.

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