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Il Drake, l’italiano che sognò di essere se stesso

Quasi un regalo di compleanno. Questo potrebbe essere il senso della notizia diffusa dalle agenzie di tutto il mondo nel tardo pomeriggio di oggi, martedì 18 febbraio 2014. A 116 anni esatti dalla nascita di Enzo Ferrari, detto il “Drake”, veniamo a sapere che, secondo l’annuale classifica dell’agenzia Brand Finance, il marchio della casa automobilistica modenese ha superato quello della Coca Cola, di Hermes, della Walt Disney, della Rolex, della Red Bull e addirittura di Google. Quindi, è il primo al mondo, superiore ad ogni altro.

I parametri decisivi per questo successo del Cavallino Rampante sono stati: lealtà e fiducia dei consumatori, identità visiva, presenza online e soddisfazione dei dipendenti. Chissà lui come avrebbe commentato: sarebbe stato orgoglioso, certo, ma magari avrebbe anche storto un po’ il naso davanti a questa identificazione dei suoi amatissimi bolidi con un marchio, da mettere sullo stesso piano di altri marchi relativi ad oggetti di tutt’altro genere: profumi, cartoni animati, bevande…per non parlare poi di un motore di ricerca, che non è neppure un prodotto concreto, ma appartiene a quel pianeta virtuale che lui, Enzo Anselmo Ferrari, nato nel 1898 – altro secolo, altro mondo – non ha fatto in tempo a conoscere. In ogni caso, ce l’ha fatta ancora, questo italiano ostinato, dal carattere difficile, ma anche generoso come pochi, che ha portato in alto il nome del suo paese come forse nessun altro ha saputo fare nel Novecento. Lui che nella sua vita ha conosciuto i trionfi, ma anche le amerezze, le delusioni, la disperazione. Come quella volta che, nel 1919, si presentò alla Fiat, a Torino, per chiedere di essere assunto. Ma non ottenne nulla. Solo, lontano da casa, non ancora ripresosi dal dolore per la perdita del padre e del fratello Alfredo, entrò nel Parco del Valentino, si abbandonò su una panchina e pianse amaramente. Poi venne la fondazione della sua Scuderia, i trionfi che tutti conosciamo, e in tutto quel tempo raramente il grande vecchio si allontanò da Maranello, ormai suo “feudo” riconosciuto. Ma a Torino ci tornò una volta, nel 1969, per incontrarsi con l’avvocato Gianni Agnelli: in ballo c’era un accordo conveniente ad entrambi, che fu siglato con reciproca soddisfazione (e c’è da notare che l’Ingegnere aveva ricevuto offerte allettanti dalla Ford, ma volle privilegiare l’intesa con la più importante casa automobilistica del suo paese). Ebbene, risolto l’affare, si ricordò di quel momento di sconforto di cinquanta anni prima: si fece portare al Valentino, ritrovò quel sedile che aveva offerto il suo muto sostegno a quel giovane affranto, e vi si accomodò nuovamente. A ripensare a se stesso, senza dubbio, alle proprie esperienze e a quello che la vita gli aveva riservato. Soddisfazioni, molte, ma anche dolori. Quello, immenso, per la morte del figlio Dino, vittima della distrofia muscolare nel 1956; quello provato ogni volta che un suo pilota moriva in corsa (ci fu anche chi lo accusò di essere un nuovo Saturno che divorava i propri figli). E magari non gli mancò la consapevolezza del fatto che quell’universo affascinante e crudele che era diventato la sua vita – il mondo delle corse – gli avrebbe riservato altri lutti. Avrebbe conosciuto un giovane driver pazzo e spericolato, con la faccia da bambino, e l’avrebbe amato come un figlio: Gilles Villeneuve, questo il suo nome, e avrebbe perso anche lui, nel 1982. Ma in quel momento dell’anno 1969, su quella panchina, era appagato. Aveva assicurato il futuro della sua azienda, proiettandola verso quei riconoscimenti che sarebbero continuati anche quando lui non ci sarebbe stato più (morì nel 1988, a 90 anni). La sua storia era cominciata da quell’antico rifiuto subito in casa Fiat, ed arriva fino alla notizia di oggi. Era l’uomo che poté dire di sé: “Sono uno che ha sognato di essere Enzo Ferrari”. Uno di quei personaggi per i quali i critici cinematografici usano volentieri la definizione “bigger than life”. Ma la sua non è stata una storia di celluloide. La sua è stata una vita vera, con i momenti di orgoglio e anche con i grandi dolori. E per lui basta una parola sola: è stato il “Drake”. E continua ad esserlo ancora.

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