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ORSON WELLES E FALSTAFF: QUANDO L’ARTE TRAVALICA LE MISURE DELLA VITA

Lo dirò apertamente: considero Orson Welles – insieme a Stanley Kubrick – il più grande personaggio della storia di quella meravigliosa forma d’arte che è il cinema. E dunque è doveroso oggi, nel centesimo anniversario della sua nascita, celebrare questo artista immenso, che ha tra l’altro legato la sua figura a quella di un altro genio insuperabile, William Shakespeare.

 

Nella sua carriera, Welles ha impersonato, a teatro, al cinema o alla radio, molti degli eroi creati dalla fantasia del bardo per antonomasia: Otello, Macbeth, Amleto e Re Lear. Ma l’identificazione più intensa si è avuta con un personaggio molto particolare e che mi è molto caro, anche a livello didattico: sto parlando di John Falstaff, questa straordinaria versione moderna dello stereotipo del “miles gloriosus”, cui Shakespeare fa il dono più grande che un drammaturgo della sua epoca potesse concepire, liberandolo dagli stereotipi della comicità per conferirgli l’umana capacità di soffrire e di commuovere. In molti lo ricorderanno goffo corteggiatore di due signore borghesi nelle “Allegre comari di Windsor”, facile alle vanterie spropositate e alle spensierate gozzoviglie in osteria: ma è il suo rapporto con il principe Henry (o Hal, se volete), destinato a divenire glorioso re d’Inghilterra con il nome di Enrico V, ad interessarci di più. Dopo aver diviso con lui colossali bevute e ardite bravate, il giovane scavezzacollo, divenuto re, rinnega l’amico con un atto che ha un valore simbolico in quanto vuole rappresentare la fine della giovinezza e l’inizio della maturità di un uomo chiamato ad un compito sacrale. Ma il dolore di Falstaff per questa nuova ed ostentata indifferenza da parte del ragazzo che aveva sinceramente amato, rompe le convenzioni dei generi e schiude le porte della modernità letteraria; tanto che il prestigioso critico americano Harold Bloom giudica Falstaff il più interessante dei personaggi shakespeariani, superiore allo stesso Amleto.
Tornando a Welles, diremo dunque che tra i suoi film – accanto agli immortali “Citizen Kane”, “The magnificent Ambersons” e “Mr. Arkadin” – non è affatto da trascurare l’opera che da noi si chiama semplicemente “Falstaff” ma che in originale reca un titolo spagnolo, “Campanadas de medianoche”, proprio in quanto si tratta di una produzione iberica. Le campane di mezzanotte (“Chimes at midnight” nell’originale shakespeariano) sono quelle che il corpulento cavaliere nomina affranto, ricordando vanamente al freddo re che lo tratta improvvisamente come un fastidioso estraneo le gaudenti nottate passate insieme, con altri compagni di modesta levatura ma sinceri, quali Bardolfo e Pistola. Welles fa suo nel modo più intenso questo personaggio così complesso, ambiguo eppure profondamente umano, cogliendone quella modernità che gli è stata particolarmente congeniale fin dai suoi esordi. “Punto cultura” propone da questo film del 1966 una celebre scena, tratta dal quinto atto della seconda parte dell’Enrico IV, tragedia storica intitolata al sovrano inglese padre del giovane Hal, che eredita il trono alla morte dell’illustre genitore. E’ il momento in cui il nuovo re (interpretato da Keith Baxter) disconosce il vecchio amico, con parole crudeli e scostanti. Questo il testo originale inglese:

I know thee not, old man: fall to thy prayers;
How ill white hairs become a fool and jester!
I have long dream’d of such a kind of man,
So surfeit-swell’d, so old and so profane;
But, being awaked, I do despise my dream.
Make less thy body hence, and more thy grace;
Leave gormandizing; know the grave doth gape
For thee thrice wider than for other men.
Reply not to me with a fool-born jest:
Presume not that I am the thing I was;
For God doth know, so shall the world perceive,
That I have turn’d away my former self;
So will I those that kept me company.
When thou dost hear I am as I have been,
Approach me, and thou shalt be as thou wast,
The tutor and the feeder of my riots:
Till then, I banish thee, on pain of death,
As I have done the rest of my misleaders,
Not to come near our person by ten mile.
For competence of life I will allow you,
That lack of means enforce you not to evil:
And, as we hear you do reform yourselves,
We will, according to your strengths and qualities,
Give you advancement. Be it your charge, my lord,
To see perform’d the tenor of our word. Set on.

Il re dice a Falstaff di non conoscerlo, lo invita a redimersi, rinfacciandogli lo squallore del connubio tra vecchiaia e vizio, e lo invita a riflettere sulla morte, imponendogli addirittura di stare lontano dieci miglia dalla sua regale persona, pena la morte, promettendo tuttavia sostegno materiale e un atteggiamento più mite se saprà dare buona prova di sé. Allettamento vano, in quanto il vecchio morirà di dolore di lì a poco, mentre Enrico si prepara ad attaccare la Francia in una nuova fase della Guerra dei Cento Anni. A lui spetterà la gloria del trionfo sul campo di battaglia di Azincourt, a Falstaff l’ingresso nell’olimpo delle grandi creature letterarie; e del resto relegarlo sullo sfondo non sarebbe stato facile, vista la mole, vicina a quella del grande Orson, entrambi incontenibili e più grandi della vita stessa.

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