Paolo_Sollier_-_Associazione_Calcio_Perugia_1974-1975

Chiarugi e Sollier, storie di calcio anni ’70

Tipi così, nel calcio dei nostri tempi, se ne incontrano difficilmente, o forse si può dire che non ne esistano affatto.

Luciano Chiarugi è stato un campione vero, uno che oggi sarebbe conteso a suon di milioni di euro, e il posto in Nazionale ce lo avrebbe assicurato. Invece le sue presenze in maglia azzurra, in un’epoca in cui i talenti abbondavano furono soltanto tre, anche se il ragazzo nato a Ponsacco, in provincia di Pisa, militò quasi esclusivamente in clubs di primo piano: prima la Fiorentina, nelle cui file centrò lo scudetto nel 1969; poi il Milan di Nereo Rocco, con cui vinse la Coppa delle Coppe nel 1973, peraltro siglando il gol decisivo nella finale di Salonicco contro il Leeds, pochi giorni prima dello storico disastro di Verona, che ai rossoneri costò il tricolore, a vantaggio della Juventus di Vycpálek; e infine il Napoli, dove fece da spalla a Beppe Savoldi, “Mister due miliardi” (tale fu la cifra che dovette sborsare l’ingegner Ferlaino per convincere il Bologna a lasciar partire l’ambito centravanti). Se il dribbling, l’assist e il tiro secco e preciso erano gli elementi distintivi di “Cavallo Pazzo” (come lo chiamavano i tifosi), fuori dal campo (e talvolta anche sul rettangolo di gioco) la polemica e gli atteggiamenti sopra le righe erano il suo pane quotidiano: le auto americane e l’abbigliamento eccentrico gli servivano per distinguersi dall’uomo comune, mentre nell’ambiente del pallone non si fece mancare i nemici illustri, come l’arbitro Michelotti, che lo accusò di essere un cascatore e coniò persino il termine “chiarugismo” per definire la tendenza alla simulazione allo scopo di ottenere un rigore; e il rapporto di Luciano con il “golden boy”, Gianni Rivera, fu talmente teso da determinare il passaggio del giocatore toscano all’ombra del Vesuvio. 289 presenze e 158 reti sono in ogni caso i dati che riassumono una carriera di tutto rispetto, per la quale Chiarugi è ancor oggi ricordato e stimato.

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Numeri così importanti non se ne trovano nei tabellini di Paolo Sollier, nato in provincia di Torino, a Chiomonte, il 13 gennaio 1948, esattamente un anno dopo “Cavallo Pazzo”; ciò non ostante, il centrocampista che vestì la maglia del Perugia rimane un personaggio indimenticabile nella storia del calcio italiano. Sollier era uno che leggeva Pavese, Evtušenko e Lee Masters; uno che i libri li regalava – ad Ilario Castagner, ad esempio,  con la dedica “Non si vive di solo calcio” – e li scriveva addirittura, con titoli memorabili come “Calci e sputi e colpi di testa”, pubblicato da Gammalibri nel 1976, proprio l’anno in cui finì la sua breve ma intensa avventura alla corte di Franco D’Attoma.

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Ma Paolo era soprattutto un “comunista militante”, come lui stesso amava definirsi, e nella foto che ho scelto si può riconoscere, alle sue spalle, un poster di “Democrazia Proletaria”, con tanto di tenaglia e martello come simbolo. Un UFO, insomma, in un ambiente refrattario alla politica e che difficilmente si dimostrava sensibile all’impegno sociale. Colpisce, a distanza di tanti anni, rileggere le sue interviste degli anni ’70, nelle quali affrontava problemi come la violenza negli stadi, che collegava alla mancanza, nel nostro paese, di una pratica sportiva di massa; o in cui proponeva l’idea del tifo come valvola di sfogo per il popolo italiano, frustrato, insoddisfatto e avvilito, ma incapace “di rimboccarsi le maniche e di realizzare una vera presa di coscienza politica”. Si potrà certo non essere d’accordo con le sue idee,che peraltro Sollier considera sostanzialmente valide ancor oggi, ma non penso sia fuori luogo affermare che personaggi così sinceri ed anticonformisti sarebbero ancora utili non solo al movimento calcistico, ma all’intera società italiana.

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