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Il Trovatore, un successo dalla prima ad oggi

Saragozza, sugli spalti di un castello medievale: una giovane donna, Leonora, desiderata come sposa dal Conte di Luna, confessa alla sua ancella di essere innamorata di un poeta, Manrico, detto il trovatore. Il canto del giovane intanto si ode in lontananza. Quando Leonora intravede nell’oscurità la sagoma di un uomo, pensa che sia Manrico venuto a cercarla, e si getta nelle sue braccia. Si tratta invece del Conte che, adirato, comprende di avere un rivale e, lanciatosi all’inseguimento di Manrico, lo sfida a duello.

Manrico, per quello che ne sa lui stesso, è figlio di una zingara di nome Azucena. Ma, in una scena notturna in un accampamento gitano, viene a sapere di essere stato rapito da bambino a suo padre, il vecchio Conte di Luna. Ora il trovatore si rende conto del motivo che, nel corso del duello con l’attuale Conte, lo ha inspiegabilmente spinto a non trafiggere il rivale pur avendone avuta l’opportunità. Era la voce del sangue che parlava, impedendogli di commettere un fratricidio. Così fu Manrico a rimanere ferito, ma Azucena, amorevole come una vera madre, lo curò. Più tardi, il giovane ha un altro scontro con il fratello-nemico, che cerca inutilmente di rapire Leonora dal convento in cui si è ritirato.

La cattura di Azucena, costretta a confessare di essere la madre di Manrico – del quale però non rivela lo strettissimo rapporto che lo lega al Conte – impedisce al trovatore e a Leonora di unirsi in matrimonio. Manrico si precipita a salvare la zingara che sta per essere arsa viva, minacciando vendetta contro il fratello.

Ma l’impresa fallisce. Manrico viene catturato e condannato a morire insieme ad Azucena. Tutto si avvia verso una catastrofica conclusione: Leonora promette al Conte che sarà sua sposa, in cambio della grazia per l’uomo che ama. In realtà, la giovane non ha alcuna intenzione di sottostare a un matrimonio per lei odioso, e si avvelena prima di recarsi da Manrico per annunciargli che può andarsene libero. Di fronte alle remore del poeta, Leonora rivela di essere in punto di morte, mentre il Conte ascolta di nascosto e decide che il rivale dovrà morire. Soltanto ad esecuzione avvenuta Azucena, avviata anche lei al patibolo, accusa il Conte, per infliggergli una ferita insanabile, di aver decretato l’assassinio del fratello, e può finalmente affrontare il rogo in preda ad una selvaggia felicità, avendo vendicato la morte della madre, condannata molti anni prima dal padre del Conte e di Manrico.

Questa, in sintesi, la vicenda del Trovatore di Giuseppe Verdi, la cui prima rappresentazione si diede il 19 gennaio 1853 a Roma, al Teatro Apollo, che si affacciava sul Tevere di fronte a Castel Sant’Angelo. Grande fu il successo del melodramma, che costituisce il secondo momento della cosiddetta “trilogia popolare” verdiana: C’era già stato, nel 1851, il Rigoletto; e nello stesso 1853, a marzo, sarebbe venuta la Traviata. Sappiamo bene quale grandezza culturale sia stata riconosciuta a Verdi, il musicista al quale l’Italia deve una delle pagine fondamentali della storia del suo teatro, nazional-popolare nel senso nobile che Gramsci associava a questa espressione.

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Ma, come afferma Carlo Fontana, Sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano dal 1990 al 2005, Verdi fu “un musicista colto e raffinato, autore di arie che, se eseguite rispettando i segni espressivi, sono dei veri e propri Lieder; un uomo del suo tempo che si poneva il problema di comunicare con il pubblico indagando le psicologie, le passioni, i conflitti dell’anima e del potere”. Far riemergere questa originaria essenza è stata la sfida, naturalmente vinta, da Fontana stesso e dal maestro Riccardo Muti, che nella stagione 2000-2001 (nel centenario della morte del musicista) hanno riportato nel teatro del Piermarini la “trilogia” così amata dal pubblico. E le celebrazioni verdiane sono tornate nel corso del 2013, anche con una messa in scena del Trovatore all’Arena di Verona, il 6 luglio, con la riproposizione dell’eccellente regia di Franco Zeffirelli, risalente al 2001. Ma, tornando a Fontana, dobbiamo ancora citare le sue parole e fare veramente in modo che tutti, a cominciare dai giovani, conoscano Verdi e il contributo che ha dato alla cultura italiana, perché “la tradizione ha senso ed è vitale in quanto sia stimolo e punto di riferimento per il presente e non nostalgica commemorazione di un passato comunque irripetibile”.

NOTE

Ecco una brevissima presentazione di ognuno dei quattro filmati che ho inserito. In Tacea la notte placida, Leonora rievoca la prima volta che ha udito il canto notturno del trovatore, che fece nascere l’amore in lei. Stride la vampa contiene invece il ricordo, da parte di Azucena, dell’orribile fine della madre, bruciata sul rogo per volere del vecchio Conte di Luna. Per vendicare quella morte la zingara rapì poi Manrico, e si può dire che tutte le tragedie che seguiranno abbiano origine nella scena fatta rivivere in quest’aria. Nel terzo filmato possiamo ascoltare la celeberrima “cabaletta” Di quella pira…, in cui Manrico dichiara la sua volontà di salvare ad ogni costo Azucena dal rogo che le si prepara; è questo lo scoglio più arduo per il tenore che interpreta il ruolo del protagonista, per via dei due “do” acuti di petto che sono diventati prassi esecutiva, al di là della scrittura verdiana, fin dall’Ottocento. L’ultimo video è dedicato al finale, con Leonora che canta Prima che d’altri viva, rivelando così d’aver già assunto il veleno mortale.

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