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Il prezzo di uno sguardo

Vai poi a sapere perché lui si è voltato…”Furor”, dice Virgilio, un’improvvisa follia; per Ovidio l’ansia di rivedere l’amata si associa ad una colpevole sfiducia negli dei; Cesare Pavese, in una delle sue opere più affascinanti, i “Dialoghi con Leucò”, arriva a dire che lo ha fatto apposta, perché tornare a vivere nel mondo dei vivi quella storia d’amore, che comunque sarebbe stata di nuovo interrotta dal soffio gelido della morte, non avrebbe avuto senso; e non manca chi, come il poeta inglese ottocentesco Robert Browning, sostiene che a farlo girare sia stata lei, dicendogli “Look at me”, “Guardami”, per lasciarlo andare libero, sentendosi ormai una donna senza più passato né futuro.

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E quanti studi su di lui, quante definizioni: poeta, musico, eroe tra gli Argonauti, sciamano appartenente ad un’antichissima tradizione mitico-magica pre-ellenica secondo Pietro Citati. Ma cosa significherà poi quel comando apparentemente così facile da rispettare imposto da Proserpina: “Non voltarti”…e lui invece lo fa, ammesso che sia davvero andata così, come abbiamo visto…

Insomma, pochi miti hanno affascinato così tanto i poeti, gli artisti, i ricercatori, come hanno fatto per millenni Orfeo e la sua Euridice. E un contributo grandissimo alla fama imperitura di questa storia d’amore e morte lo hanno dato i musicisti: perché è da quando esiste il melodramma, il “recitar cantando”, che la storia dei due amanti che provarono a restare uniti anche contro i decreti dell’Ade trova spazio sui palcoscenici e tra le orchestre d’Italia e d’Europa. C’erano già stati, a inizio ‘600, i lavori fiorentini di Peri e di Caccini; ma è pochi anni dopo, nel 1607, che arriva il primo vero capolavoro, quello di Claudio Monteverdi: intitolato “Orfeo”, naturalmente.

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Ci dobbiamo spostare a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove già alla fine del ‘400 era stato il Poliziano a offrire una “fabula” sul mitico cantore e sulle sue sofferenze d’amore, opera non solo recitata, ma in parte già cantata. All’inizio del secolo barocco, la città è retta dal Duca Vincenzo I, appassionato di musica e di teatro, e tanto lungimirante da avere presso di sé Monteverdi stesso, poi promosso al rango di primo musicista di corte. Con lui collabora un giovane avvocato e diplomatico, musicista egli stesso e figlio di un compositore di fama: Alessandro Striggio. È lui a fornire il libretto per la nuova opera che si intende rappresentare: le fonti sono Virgilio e Ovidio, ovviamente, ma anche Poliziano e Rinuccini, il librettista dell’Euridice di Peri. Tutti sappiamo che il mito originale ha un finale tragico: ma le festose esigenze di corte (il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia) avevano imposto a Rinuccini un finale lieto, che nell’edizione finale dell’Orfeo monteverdiano del 1609 trova conferma. Quale sia stata l’idea iniziale di Striggio non si sa; in ogni caso la data memorabile è quella del 24 febbraio 1607, quando l’opera fu presentata per la prima volta al Palazzo Ducale di Mantova, in una piccola sala, per quel che se ne sa, tanto che non furono usate le ingombranti macchine sceniche che sarebbero servite a mettere in scena un intervento salvifico di Apollo (ammesso che questo fosse la conclusione voluta da Striggio per quell’occasione).

Quel che è sicuro è che l’opera è una pietra miliare nella storia della musica colta: Monteverdi vi esplica tutta la sua sensibilità musicale, in un lavoro per i tempi modernissimo, nel quale grandi commentatori come il direttore d’orchestra austriaco Nikolaus Harnoncourt riconosce l’ispirazione totale del genio.

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Se il finale di quella prima versione fosse tragico per necessità o per scelta, come si è detto, lo ignoriamo: di sicuro quel giorno per Orfeo iniziò una nuova vita: basta fare i nomi dei musicisti che, in seguito, tornarono sui suoi dolenti casi: Lully, Haydn, Gluck, Offenbach, Stravinskij. E persino nel ‘900, addirittura dopo la Seconda Guerra Mondiale, continuiamo a trovare il divino musico che rivive il suo eterno amore per Euridice, questa volta addirittura sullo sfondo del Carnevale di Rio de Janeiro.

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È Vinicius de Moraes a trasportarlo in quelle terre lontanissime, in un dramma da cui poi il regista Marcel Camus trarrà (nel 1959) un celebre film, “Orfeo negro”. C’è poco da dire: i due mitici amanti muoiono e rinascono di continuo, rapiti da una passione misteriosa che continua ad affascinare ancor oggi. E continuiamo a chiederci perché si è voltato…

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