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Trionfi, dolore e morte nella carriera di Emile Griffith

TRIONFI, DOLORE E MORTE NELLA CARRIERA DI EMILE GRIFFITH

“”Maricón”: brutta parola in spagnolo, un’offesa volgare rivolta ad un interlocutore che si accusa di essere omosessuale. Più brutta ancora se usata negli Stati Uniti di inizio anni ’60, quando ad ammettere la diversità del proprio orientamento sessuale erano solo un paio di scrittori famosi, Allen Ginsberg e Gore Vidal. Pochi anni prima, nel ’57, il celebre pianista pop Valentino Liberace – cui di recente è stato dedicato il film DIETRO I CANDELABRI, con Michael Douglas – aveva querelato il Daily Mirror che aveva insinuato che l’artista fosse gay.

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Ma se a rivolgere l’insulto suddetto è un pugile nei confronti di un avversario, allora la questione si fa grave, data la carica di machismo che ha sempre caratterizzato il mondo della boxe. Andò proprio così: si era alla vigilia dell’incontro tra Emile Griffith, americano originario delle Isole Vergini (nato il 3 febbraio 1938), e il cubano Benny Paret. In palio c’era il titolo mondiale dei pesi medi, ed era la terza volta che i due si sfidavano, sempre con quell’obiettivo nella mente e nel cuore. La prima volta aveva vinto Griffith, poi Paret aveva saputo prendersi la rivincita. Nella classica cerimonia del peso, con la tensione alle stelle per l’accentuata rivalità tra i contendenti, Benny pensò di provocare il rivale facendo leva sul suo punto debole: la presunta omosessualità, di cui nell’ambiente si chiaccherava con una certa insistenza, anche se nessun addetto ai lavori avrebbe mai osato accennare pubblicamente al fatto che potesse esistere un boxeur gay, per non usare altre espressioni. Il cubano invece pronunciò davanti a tutti quella parola, infrangendo un tabù e scatenando l’ira di Emile. I presenti devono intervenire per trattenerlo, altrimenti la rissa si scatenerebbe seduta stante. Arriva il giorno del match, il 24 marzo 1962: al mitico Madison Square Garden di New York c’è la folla delle grandi occasioni, a bordo ring siedono celebrità di ogni tipo, a cominciare dallo scrittore Norman Mailer, che poi rievocò la tragedia in un suo testo. Sì, la tragedia, perché andò a finire molto male: l’incontro era stato abbastanza equilibrato, addirittura era stato Griffith a rischiare il k.o.al sesto round. Ma è al dodicesimo che lo sfidante si scatena: sembrava una ripresa interlocutoria, poi all’improvviso un destro fulminante dell’americano, seguito da decine di colpi violentissimi cui il cubano non oppone la minima resistenza. Un massacro. L’arbitro Ruby Goldstein dovrebbe intervenire, potrebbe dichiarare l’incontro concluso dopo i primi pugni devastanti incassati da Benny, ma non lo fa. Sarà poi duramente criticato per questo. Dopo dieci giorni di coma Paret si spegne, ma anche la vita di Griffith, accusato di aver voluto vendicarsi per l’affronto subito, resta segnata per sempre da questa tragica vicenda. Lo shock fu immenso per l’opinione pubblica americana: non vennero più trasmessi incontri di boxe in diretta fino agli anni ’70.

Emile Griffith vs Benny Paret, Benny (Kid) Paret lies helple
La carriera del nuovo campione del mondo continua comunque, anche se con quel fantasma che gli tormenta l’anima. Entra nella storia del pugilato un trittico di incontri con l’italiano Nino Benvenuti, tra l’aprile 1967 3 il marzo 1968. Il triestino ha la meglio la prima volta – con più di sedici milioni di italiani che passano la notte con l’orecchio incollato alla radio per seguire il connazionale che si batte dall’altra parte del mondo – ed anche nel match decisivo.

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Fu quello l’episodio che segnò la fine della sua parabola. La sua vita andò in ogni caso avanti, e nel 2005 gli fu dedicato un documentario dal titolo “Ring of Fire: The Emile Griffith Story”. Il drammatico combattimento con Paret è al centro della narrazione, e non manca il finale con l’incontro tra il vecchio campione e il figlio della sua vittima, a Central Park; appena il tempo di un abbraccio, Emile dice al giovane : “Somigli a tuo padre”, e scappa via. Troppo dolore, molto più di quello che un boxeur di vaglia sia abituato a sopportare sul ring. Poi, nel luglio dell’anno scorso, Griffith lascia questa terra, dopo anni di sofferenza per una malattia neurologica cui non sembrano estranei i colpi subiti durante gli anni passati a incrociare i guantoni per un posto al sole. Difficile giudicare, impossibile non chiedersi se ne valesse la pena.

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