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BRASILE 2014: IMPROVVISAZIONE? NO, GRAZIE!

Cala il sipario su Brasile 2014, e viene spontaneo chiedersi che mondiali siano stati questi che si sono conclusi con la vittoria di Joachim Löw e soci: belli o brutti? emozionanti o noiosi? A questi interrogativi ognuno potrà rispondere da un punto di vista soggettivo. Io, da parte mia, penso  che si sia trattato di un torneo che potremmo definire specchio dei nostri tempi, complessi, impietosi e poco inclini a concedere spazio all’estro imprevedibile ed all’improvvisazione.

Ha vinto infatti una Germania fortissima e che ha meritato pienamente il suo quarto alloro iridato, ma soprattutto ha vinto perché questo trionfo non lo ha solo desiderato, ma programmato quasi scientificamente. Da tempo, nel gergo delle cronache sportive, si dice che va sul gradino pù alto del podio chi ha più “fame di vittoria”, ed in genere tale condizione “fisiologica” si attribuisce a chi ha subito qualche delusione di troppo e per questo scende in campo con un “furor” agonistico particolare.

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E questo vale senz’altro per gli uomini in casacca bianca, il cui successo però non è stato motivato solo da fattori di ordine tecnico e psicologico. Subito dopo l’umiliante eliminazione dell’Italia contro l’Uruguay, scrissi che, pur avendo indubbiamente compiuto degli errori, Prandelli si era trovato di fronte a difficoltà rivelatesi poi insormontabili per il semplice fatto che non ha avuto giocatori veramente validi su cui contare. Il nostro campionato, troppo infarcito di stranieri neppure così esaltanti quanto a classe e doti squisitamente calcistiche, offre un numero assai limitato di calciatori che un commissario tecnico possa prendere i considerazione per convocarli in una rappresentativa nazionale che debba competere ai massimi livelli. Ora, riconosciuto che citare se stessi non è particolarmente elegante, e ribadita l’ovvietà di tali considerazioni, che a suo tempo non avevo mancato di sottolineare, l’immagine della coppa alzata da Schweinsteiger e compagni si staglia proprio come un atto di accusa nei confronti di chi, come noi, è andato incontro ad una bruciante eliminazione perché propone un movimento calcistico tutt’altro che caratterizzato da competenza e rigore a livello dirigenziale ed organizzativo. Prendiamo invece la Bundesliga: da anni – ormai lo sappiamo tutti, a questo punto – la massima serie germanica impone un controllo sull’arrivo degli atleti stranieri e i clubs che intendono prendervi parte devono garantire precisi standards relativamente agli impianti ed alla cura dei settori giovanili (che è proprio quello che manca da noi). Ecco così spiegata la fioritura dei vari Kroos, Schürrle, Ozil, Götze e e di altri giovani ancora che – per un motivo o per l’altro – non hanno trovato spazio in nazionale.

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Semplicemente troppi gli elementi di qualità perché questa squadra possa essere fermata; il che può in parte dipendere da una contingenza generazionale fortunata, ma è stato soprattutto un fenomeno fortemente cercato e voluto. Su tutti, senza dimenticare il vecchio Klose, meritano una citazione Müller e Neuer, due giocatori che hanno rivoluzionato il modo di intendere il loro ruolo. Il primo esemplifica alla perfezione la figura del “falso nueve”, legata all’arrivo di Guardiola nel mondo del calcio tedesco. L’attaccante sa leggere gli spazi di gioco, coglie i tempi di inserimento, si adatta alle esigenze della squadra collaborando con i compagni anche in fase difensiva, senza momenti di cedimento.

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Del secondo, efficace ed innovativo in tutto, si può dire che sia il portiere 2.0, a cominciare dai suoi metodi di allenamento. Ma al di là di tutto, naturalmente, ci sono i meriti del tecnico, Löw, che si è impegnato al massimo in questo progetto vincente.

Dal punto di vista tecnico-tattico, la Nationalmannschaft  si è imposta per la sua idea di gioco (nessuna altra nazionale – forse con l’eccezione della Colombia – ha dimostrato di possederne una), che viene prima dei singoli. Il 4-3-3 è stato lo schema vincente, quello che permette di coprire meglio il campo e di allargare di più il gioco nella fase offensiva. Tra i personaggi di maggior spicco di tutta la competizione, potremmo citare due esponenti della sorprendente Costa Rica, il tecnico Pinto e il portiere Navas; e poi Van Gaal, che con la sua esperienza e con la sua grande intelligenza tattica ha portato ancora una volta lontano quella rappresentativa “oranje” condannata a non cogliere mai il successo finale.

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L’Argentina, pur composta da ottimi elementi, non è riuscita ad infrangere quello che si è rivelato un muro invalicabile. gli uomini di Sabella hanno faticato molto, anche per supportare un Messi spento, in difficoltà nello smarcarsi, che troppo spesso ha aspettato di ricevere la palla per inventare, certo anche perché non poteva contare sul giro-palla che nel Barcellona costringe gli avversari a non concentrarsi solo sulla sua marcatura. E proprio la pulce argentina, il miglior giocatore del pianeta, ha offerto un’altra delle immagini simbolo di questi mondiali, con le sue crisi di vomito che lo hanno fatto apparire come un ragazzino schiacciato dal peso delle aspettative di genitori troppo esigenti  che non vedono l’ora di lanciarlo nel sistema del calcio-spettacolo dei nostri tempi, più crudele che bello, sempre più somigliante all’incubo distopico dello spot “Risk everithing” della Nike.

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E per concludere, veniamo al Brasile. Tutti i tecnici impegnati nella competizione, consapevoli delle difficoltà cui sarebbero andati incontro,  hanno cercato di mettere in campo squadre equilibrate; tutti, tranne Scolari, ovviamente, che ha mandato in campo una Seleção  fin troppo spavalda, ma soprattutto indisciplinata e disordinata, priva di un gioco ben preciso e, in mancanza di altri talenti, fondata esclusivamente su Neymar. Quando questi è stato messo ko, si è visto come è andata a finire.

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Già, il cosiddetto “Mineirazo”, che è andato a sommarsi al fatto che, dal punto vista economico, i mondiali rappresentano – ma questo è un fatto ormai risaputo – una notevole fonte di guadagno per la Fifa e per gli sponsor, ed una sostanziale perdita per il paese organizzatore. La crescita del Brasile già da tempo sta rallentando, l’inflazione è salita e i posti di lavoro creati sono stati ben pochi rispetto alla domanda e, ovviamente, tutti a tempo determinato. Poco più di un anno fa, in occasione della Confederation Cup, erano esplose la rabbia e la frustrazione di larghe fasce della popolazione, cui aveva fatto seguito una repressione violenta. A muoversi erano stati soprattutto i giovani delle favelas, e questo pericoloso fenomeno potrebbe tornare a ripresentarsi, anche in occasione delle imminenti elezioni presidenziali, che si terranno in ottobre. Il Brasile aveva vissuto una sorta di tregua mentre il torneo era in corso; poi è arrivato il già citato “Mineirazo”, la versione 2.0 (anche in questo caso) dell’epico disastro del 1950, molto più farsesco che tragico. Troppi gol, divulgati in tempo reale da un numero spropositato di telecamere sparse per tutto lo stadio di Belo Horizonte, mentre invece la favola, triste o lieta che sia, nasce dalle vaghezza delle informazioni e dalla distanza favolosa tra l’accaduto e i destinatari della mitopoiesi. E di una cosa possiamo essere certi: né tra qualche decina di anni, né in altre epoche più vicine, troveremo dei nuovi Eduardo Galeano o Darwin Pastorin che canteranno l’epos dolente di quel 7-1, che sarà piuttosto derubricato tra gli esempi di quanto nulla possa l’improvvisazione vuota ed inconsistente contro una programmazione seria e moderna, al passo con i tempi inesorabili che stiamo vivendo.

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